Qualche settimana fa, o giù di lì, l’amico collega Guido Carione pubblicò un elenco piuttosto scrupoloso della toponomastica delle località di campagna di Trentinara. Comparivano anche quelle della mia famiglia, dove trascorsi gli anni felici della mia infanzia. E mi sono scattati ricordi carichi di dolcezza che ho narrato nel mio primo romanzo LETTERA ALLA MADRE che pubblicai nel 2006, che ebbe notevoli consensi di critica e di pubblico. Vinse numerosi premi, alcuni prestigiosi, come IL MONTALE FUORI DI CASA. Fu adottato come libro di testo in molte scuole, della Campania e, naturalmente, nella Liguria ed anche per questo ebbe il Premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. La mia campagna che più delle altre ricordai con grande partecipazione emotiva fu “CRETELLA” e ringrazio l’amico Guido, che mi ha dato l’opportunità di parlarne a distanza di tanto tempo. Forse se ne ricorderanno anche i giovani che allora frequentavano le scuole medie di Trentinara e di Capaccio, nonché il Liceo scientifico di Capaccio Scalo, ma non solo. Riproduco qui di seguito alcune pagine di quel romanzo autobiografico, che fece entrare nella letteratura contemporanea la mia famiglia ed il mio paese, cosa di cui vado orgoglioso, naturalmente.
“Sono stato a Cretella.”
Ci mancavo da un paio d’anni; ho spalancato la porta della piccola casa di campagna. Era tutto come prima, come la lasciò papa. O quasi. Ho tirato fuori la vecchia poltrona. La portammo lì quando comprammo il salotto nuovo. Era un po’ ammuffita per l’umidità. Un’ora di sole ed è tornata calda ed accogliente. Ho fatto un giro di perlustrazione tra ulivi e viti. Il pozzo è ancora lì stracolmo d’acqua per il mancato uso. L’orto con filari di pomodori, melenzane e peperoni è un lontano ricordo. Al loro posto ciuffi d’erbe a generazione spontanea. Una stretta al cuore per il senso di abbandono. Ma la rosa di tutte le stagioni mi ha sorriso invitante di profumi nel fasto della fioritura. Una rana ha intensificato il suo ritmo di sistole e diastole a ghiandole verdastre mi ha fissato incuriosita. Immobile. “Lasciala stare” mi dicesti un giorno che nel mio gioco perfido di fanciullo, la pungolavo con un ramo rinsecchito di ciliegio. “È l’anima di un morto”, aggiungesti severa. Lo ripetesti quando inseguivo una farfalla ebbra di sole con gli occhi sulle ali di velluto grigio. Gli studi di filosofia greca mi richiamarono alla mente quelle tue raccomandazioni e la saggezza contadina si illuminò di teoria di metempsicosi. All’ombra del pergolato mi sono sperso in ricordi di dormiveglia: papà riassodava pali alla vigna. Tu alle prese con la cucina nel coccio di creta, all’aria aperta. I sapori avevano altri profumi in campagna con i grilli e le cicale a far da contrappunto al nostro riso per il frastuono del tappo di una bottiglia di lambiccato. Sapessi quanto pagherei per… riassaporare le dolci atmosfere di quei giorni lontani! Oh le lunghe fughe a nascondino tra i pampini con Teresa a piluccare i grappoli screziati da incipiente maturazione! Ma ne valeva la pena fare il percorso che ho fatto a rincorrere il lavoro ed il successo per città d’Italia e d’Europa? Ho perduto l’innocenza aurorale dei miei campi e la felicità del vivere di poco. Ho rinunziato al concerto di grilli e cicale e al pigolio degli uccelli a fuga dalla cova per l’assordante strombazzare dei clacson della metropoli. Ho rifiutato, rinnegandoli, i profumi del finochietto selvatico, della mentuccia, del rosmarino e del basilico e degli afrori di terra che brucia al sole le essenze mediterranee per intossicarmi con gli scarichi di ossido di carbonio del traffico della città. E mi ritrovo a piangere un paradiso perduto con la consapevolezza amara dell’uomo di studi che ha imboccato una strada senza ritorno.
Ho rimesso la poltrona al suo posto. Si ricoprirà di biancore di umido. Ho rinserrato la porta della minuscola casa. Dal pergolato folto di fogliame i raggi del sole rosso del tramonto ad accendere riso di bagliori alle pigne già gonfie d’umori. Le cicale all’ultimo concerto!
Ho registrato la morte nel cuore.
Ho fatto la strada del ritorno da “Cretella” a marcia lenta. Con soste frequenti. Quante volte l’abbiamo fatta insieme, a piedi nel saliscendi delle carrarecce! Oggi la rotabile è agevole, anche se scossa in più punti. È stato un viaggio a ritroso di vita. Fiotti di ricordi zampillavano di vita come polle cristalline iridescenti dal carsismo della memoria. Schegge di esistenza legate a un albero rotolate in un burrone, ossificate nelle striature di una pietra. Ho rivisto l’albero di pero ”mastantuono”, stracarico come un tempo. Un miracolo su un terrapieno inselvatichito dall’abbandono! Erano rilucenti dell’oro del succo pastoso luminescente prugne oblunghe le “aulecene” zuccherine. Ho steso la mano per un assaggio di fanciullezza. Mi sono fermato sul ciglio del burrone erboso dove caracollai incolume all’innocente seguimento di una lepre. Nella gola del vallone cercava ancora celo il cerro, il cui tronco si ingioiellò, d’improvviso, del velluro champagne della coda di uno scoiattolo a spaurita fuga a conquista di cima. Mi sono seduto sullo sgabello naturale della pietra striata di ocra che ci fu sosta di riposo per il carico di panieri stracolmi di frutta di stagione. Ho rivissuto la paura stampata sul tuo viso improvvisamente pallido per quella vipera che sbucò dai rovi e, per fortuna, strisciò rapida a nascondiglio di tana. Nella fiancata del calanco rossiccio tra le macchie di lentischi verde bottiglia troneggiava ancora il ciuffo di corbezzoli, che a ottobre squillavano nel sangue delle bacche saporite e raspose tra il fogliame lustro di brina e sole pallido. Ombreggiava alla svolta verso la salita l‘ombrello del sorbo, che già prometteva grappoli di frutti lapposi. Ai margini dei fossati siepi sempre più folte di prunastri che a novembre regalavano bacche dolcissime a vorace caccia di beccazze fameliche. Ne ero ghiotto anch’io. E mi è sembrato saluto il gracchiare dei corvi che roteavano a bassa quota per planare all’improvviso a cattura di preda. Mi ha salutato per davvero Maria compagna di giochi e di lavoro irriconoscibile per i segni della fatica e degli anni su corpo incartapecorito. “Come state? Avete fatto una passeggiata in campagna?” Ed ha sorriso a mezza bocca sdentata. “Sì. Ci mancavo da tempo” le ho risposto. Ma ho sottaciuto che quello era il tentativo di un naufrago ad ancoraggio di porto perduto. Per sempre.
Mi sono fermato al Santuario della Madonna di Loreto. E sono affiorate stagioni lontane di novena annunziata alle campagne dallo scampanio del campanile moresco, di fiera vociante di ressa di venditori ed acquirenti, di processioni a litania di canti, di banda a ritmo di marce a lacerare silenzi con frantumi d’eco tra campi, valloni e fiumare. Ho spiato dal portone d’ingresso, malfermo. Una brezza leggera è penetrata a volo d’angelo a carezza si statua di Madonna nera a prigionia di nicchia. Per la prima volta, dopo decenni, mi è esplosa dentro la voglia di preghiera, mi sono confuso, consustanziandomi, nel panismo della natura, nella conflagrazione di cielo e campagna con la palla di fuoco del sole al tramonto nel mare di Agropoli. Lontano…