È un mare di miti e di leggende, di storie e di Storia
quell’ampio specchio d’acqua racchiuso tra Punta
Campanella e Punta Licosa. È il mare dove lo scaltro
Ulisse, stordito di dolcezza e passione, ascoltò il melodioso
canto delle figlie di Acheloo e Mnemosine. «Qui,
presto, vieni, o glorioso Odisseo, grande vanto degli
Achei, ferma la nave, la nostra voce a sentire. Nessuno
mai si allontana di qui con la sua nave nera, se prima
non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce; poi
pieno di gioia riparte, e conoscendo più cose». Canto
dagli occulti arcani che ancora sembra di udire, nelle tiepide
sere di mezza estate, da quelle “isolette deserte e
rocciose che si chiamano Sirene”, come ci ricorda il
greco Strabone.
«Era una di quelle notti lunate che rendono Positano un
sogno di Fata Morgana quando l’étoile dei “Balletti russi”,
Leonid Mjasin guardò quell’immaginifico scenario: in
mezzo al mare, nella lama d’argentea luce, si ergeva
l’isola de Li Galli, turgido seno della Sirena dormiente»,
luogo in cui il grande ballerino e coreografo trovò il rifugio
per la sua solitudine dallo stress del lavoro. Sognava
una grande scuola di ballo che restò sospesa a mezz’aria
come le aree volute, ne “Il lago dei cigni”, di Rudolf Nureyev
continuatore di quel sogno: su quell’isola d’incanto
il grande ballerino russo voleva erigere a Tersicore un
tempio, puro e infinito, a corona di Costa Diva, sospeso
sull’azzurro di quel mare immaginifico. Lo stesso mare
che Greta Garbo guardava dalla sua stanza a Villa Cimbrone.
Annotava la Divina: «Ogni notte pareva sciogliersi
nel nulla…dal balcone vedevo Amalfi, il mare, il cielo, le
case bianche senza tempo… e qualcosa di più forte di
me mi stringeva la gola, mi tormentava le vene» … pensieri
lasciati in libertà. E tutto si sospende in quest’ansa
di golfo, come i macèri di limoni e viti in alto, sospesi sul
mare in basso, dove la Costiera si specchia con la sua
anima, le sue case, i suoi campanili agili e le cupole di
maioliche. “In nessun altro luogo l’incrocio fra terra e acqua avviene con una reciproca metamorfosi”. Dirimpettaio,
sull’ansa degli ulivi sacri ad Atena, su sabbiosi,
sottili arenili s’infrange il mare di “pensiero” osservato da
Parmenide e Zenone dall’alto della loro Elea mentre
meditava, il primo, sulla realtà dell’Essere: immutabile,
ingenerato ed eterno; e il secondo elaborava quei “paradossi”
definiti da Bertrando Russel “smisuratamente sottili
e profondi”. Andavano le navi della città focea e della
poca distante Poseidonia, sulle rotte del commercio a
barattare merci e pensieri filosofici: una civiltà dell’uomo,
lontana dalle minacciose feluche barbaresche di Ariodeno
Barbarossa, che portavano morte e distruzione e
dalle quali due Apostoli, Matteo a Salerno ed Andrea ad
Amalfi, salvarono le popolazioni loro affidate per volontà
del Cielo.
Navi di commercio che partivano anche da quella che fu
la prima Repubblica Marinara, ricca di saperi ed inventiva:
quando nei brumosi regni del Nord Europa ancora i
sovrani firmavano gli editti con l’elsa a sigillo di spada,
Amalfi dava al mondo dei nauti la bussola per orientarsi
e leggi di navigazione, di comportamento in mare, «vele
cortesi della Repubblica, “tavole” di paziente e antica civiltà,
battono ancora visibili-invisibili nelle ore di vento
del piccolo porto», scriveva Salvatore Quasimodo. E aggiungeva:
«I pescatori di Amalfi delle romanze dell’Ottocento
hanno lasciato per sempre i loro figli e nipoti. E se
pochi di quest’ultimi si affidano ora alla lampara del
mare con le barche colorate in cerca di pesci, i volti sono
rimasti uguali, col sorriso pronto e gli occhi innocenti».
Volti uguali, quelli dei pescatori, in ogni parte del
mondo. Ne avvertì la somiglianza Antonio Ferrigno, un
costaiolo che dipinse volti di gente senza storia, meticci
e neri delle fazendas brasiliane e pescatori della costa di
S. Vicente, volti, questi, intenti a rammagliare reti ripetendo
gesti di pazienza e di attesa, volti uguali a quelli
dei pescatori di Maiori, volti della nostalgia e del ritorno
al suo mare.
«Sul mare palpitavano le lampare dei pescatori che si
servono di luci per attirare e abbagliare i polpi» scriveva
Giuseppe Marotta ricordando un suo soggiorno in questa
Costa. E rimbalzano le abitudini antiche dei marinai
di Cetara, uomini col volto bruciato dal sole e dalla salsedine,
come quello di Santiago, il pescatore di Hemingway.
«Seduto sulla panchina in ferro, all’ombra della
Madonnina Stella Maris, il vecchio scruta lontano, oltre
l’estrema punta del porto, gli umori del vento e del
mare, quasi si apprestasse ancora a condurre la sua lampara
sulla consueta scia della pesca notturna». vento e del mare, quasi si apprestasse ancora a condurre
la sua lampara sulla consueta scia della pesca notturna».
Pesca di alici, se mai con la menaica come avviene nel
mare cilentano. E mentre il mare si spiaggia in quest’ansa
meridionale del golfo a dominio di ulivi, viti, corbezzoli
e fichi d’india, in quella amalfitana a volte
penetra nella roccia, come nella Grotta dello Smeraldo, a
formare suggestioni di luci, di stalattiti e stalagmiti a corona
di presepi sottomarini.
«Il dolce color d’orientale zaffiro – annotava don Peppino
Imperato – s’espande dintorno ed ogni cosa si tinge
d’una strana fosforescenza azzurrina. Ad ogni movimento
di remi, che si tuffano nell’acqua, questa si riflette
di smeraldo e di iridescenze…».
«La luminosità del sole faceva apparire il mare ai nostri
piedi sempre più azzurro» appuntava Ferdinand Gregorovius
nel suo viaggio in Italia a proposito di questo mare
racchiuso tra due anse di costa ricche di storia, di miti, di
suggestioni, “di bellezza delle marine, – ricordava Gregorio
Sciltian -come quella di un nudo femminile, dove
l’onda bianca alla risacca si adagia a disordine d’alcova”.