A mio padre piaceva portarci tutte in crociera: era un modo per dimostrare amore a noi donne della sua famiglia. A me, mia madre e alle mie due sorelle più piccole. Noi in famiglia non ci vediamo mai: io vivo da sola da quando ho finito il liceo. Quando sono salita per la prima volta su una nave da crociera avevo sedici o diciassette anni: avevo iniziato da poco a truccarmi seriamente, a mettere l’eyeliner e il rossetto rosso, a portare le scarpe col tacco e mettermi vestiti corti perché volevo che mio padre mi facesse le foto e mi dicesse che stavo bene. Mi piaceva specchiarmi ovunque: non so se ve l’hanno mai detto, ma le navi da crociera sono piene di specchi, in cui ti vedi più grande, diversa. Quando i miei genitori si allontanavano, mi chiudevo nella sala fumatori della nave e fumavo insieme a gente che parlava in tedesco, francese, arabo, chiedevo loro un accendino e poi scappavo. Correvo a indossare il costume da bagno e poi andavo in piscina con le mie sorelle: ci facevamo un bagno e poi ci mettevamo a prendere il sole verso prua. Da un lato l’odore del mare aperto e di isole lontane, dall’altro quello del cloro. In crociera sentivamo ogni giorno decine e decine di lingue diverse e ci sembravano tutte la stessa lingua: a pranzo mangiavamo pane marocchino, moussakà greca, pollo tikka indiano, gamberi argentini, escargot, risotto allo spumante. I ristoranti delle navi da crociera hanno il soffitto basso e mentre mangi guardi gli oblò: se il mare è un po’ agitato, accade che il vino nel bicchiere si muova un po’. Una sera io e mio padre siamo andati a un party che si teneva in piscina, di notte: mi sono affacciata al pontile della nave, a poppa, e ho respirato il mar Mediterraneo: salato, buio, all’orizzonte non si vedeva niente. Avanti, dietro, destra, sinistra: tutto nero. Si sentiva solo il rumore dello scafo della nave e un silenzio che sembrava ingoiare ogni litro d’acqua. Quella sera ho provato un senso di paura oceanica e anche di eccitazione: eravamo in mezzo al nulla, su una nave che stava scivolando in acque profondissime, non si vedeva nemmeno un lembo di terra. Negli anni ho fatto pace con l’idea di passare le mie vacanze su una città galleggiante, e ho iniziato ad affezionarmi all’idea e a trovarla rassicurante: io delle navi mi fido, delle crociere anche. Ne abbiamo fatte tantissime. Mi sentivo così eccitata a svegliarmi ogni mattina in un posto diverso: aprivo gli occhi, alzavo le tapparelle e vedevo la Turchia e Istanbul; il giorno dopo vedevo l’Acropoli di Atene, quello dopo ancora la Croazia. Poi ho visto i fiordi norvegesi, il sole di mezzanotte, ho visto la Danimarca, la Svezia, la Finlandia, l’Estonia, la Russia. Poi ho visto l’Africa: sono scesa dalla nave e ho visitato moschee, ho coperto il capo e ho camminato a piedi scalzi. Ho comprato tappeti fatti a mano e ho bevuto thé alla menta, ho fumato tabacco che non avevo mai provato e poi sono andata a fare la sauna insieme ad altri corpi che non ho più rivisto. Poi tornavamo sulla nave e insieme alla mia famiglia giravamo per i lounge bar, ognuno con un nome diverso e curioso (“L’Ippocampo”, “La rosa dei venti”), gli stand con i fotografi, i gioielli e gli orologi. Prendevamo quegli ascensori che sembravano futuristici, provenienti dallo spazio: erano trasparenti e da lì si vedevano tutti i piani della nave, dal primo all’ultimo. Ogni piano aveva il nome di una stagione, di un pittore, di un musicista. Quando poi c’era la serata di gala, io mettevo l’abito lungo e io e le mie sorelle ci truccavamo come se fosse stato il giorno del nostro matrimonio: giocavamo a fare le sciantose e ci piaceva. Andavamo a cena al ristorante e durante la serata di gala c’era sempre il risotto al nero di seppia e poi il calamaro scottato, e tutti erano vestiti bene: le ragazze e i ragazzi sembravano usciti da riviste di moda, i signori che fumavano il sigaro erano elegantissimi e le loro mogli avevano orecchini brillanti. Poi scendevamo le scale scintillanti, stavo attenta a non inciampare nello strascico del vestito e cercavo lo sguardo di mio padre. Durante una nottata di gala, eravamo in navigazione nei pressi del mar Egeo: quella sera ci fu una tempesta molto violenta. Camminavo aggrappandomi ai corrimano, tutto vibrava e ho cercato subito i miei genitori e le mie sorelle: sui divanetti dei bar c’era gente stesa, con le teste poggiate sui cuscini e coperte dai giubbotti. Nessuno voleva tornare a dormire nella propria cabina. Io e mia sorella nemmeno volevamo salire su in cabina, allora siamo salite alla discoteca della nave, che a quell’ora stava chiudendo: ricordo quella nottata come una delle più strane della mia vita. Tutto tremava, mi veniva da vomitare e mi ritrovai letteralmente a piangere e raccontare le mie paure a un dj indiano o thailandese (non ricordo) che non parlava italiano e tentò di rassicurarmi dicendomi che la nave non sarebbe affondata e che non saremmo morti. Credo di aver avuto un attacco di panico tra le braccia di uno sconosciuto: perché ti senti impotente, sei letteralmente imprigionato in una cittadella galleggiante che non controlli tu, sei un puntino che è sospeso nelle acque di notte e non riesci nemmeno a pensare perché tutto va su e giù, la tua mente oscilla, il pensiero annaspa. La mattina dopo per fortuna era passato tutto: avevamo avuto solo una notte di navigazione difficile. Sul balcone della mia cabina c’era un sacco di sale incrostato: la mia cabina era all’ottavo piano della nave, le onde erano arrivate fino a lì.
Quando poi ho saputo della Concordia, mi sono sentita come se la cosa mi avesse riguardata personalmente: la crociera non è una cosa da ricchi o da borghesi, scordatevelo. C’era gene che stava lì dopo aver risparmiato per anni. Per la mia famiglia era un modo di ritrovarci, di regalarci una settimana o dieci giorni in cui ci riscoprivamo, allo stesso modo in cui mia madre scopriva per la prima volta un tramonto all’alba o mio padre assaggiava un nuovo piatto internazionale. La crociera è il nostro lessico familiare: in qualunque parte del mondo io e la mia famiglia ci troveremo, l’odore delle navi ci riporterà sempre a un momento nostro, in cui siamo stati liberi e siamo stati dei puntini sparsi per il mar Mediterraneo, il mar Egeo, il mar Baltico. Ho pensato tante volte alle vittime della Concordia: chissà quante persone erano salite su quella nave per regalarsi un’esperienza speciale, per ritrovare i familiari, chissà che vestito avevano scelto per la serata di gala, se avevano prenotato le escursioni o se preferivano andare in giro da soli. Per un anno ho tremato all’idea di salire di nuovo su una nave. Ho pensato a cosa avrei fatto io se quella nottata di gala si fosse conclusa in modo diverso. Per un anno mi sono ossessionata guardando documentari, video, leggendo articoli e setacciando il web: su una nave non ci volevo salire più. Poi ho pensato alla Monica adolescente che saliva per la prima volta sulla nave, al viso dei miei genitori finalmente felici e riposati, al sorriso delle mie sorelle, al nostro lessico familiare, a mio padre che quando siamo all’estero inizia a parlare in un inglese tutto suo, a mia madre che finalmente ride. Alla fine la paura ha lasciato spazio alla solita fame di vita. Adesso sono passati dieci anni da quella tragedia, e ogni volta che una tragedia tocca qualcosa che sentiamo a noi vicino, ci sentiamo mortali e corruttibili. Perché quella sera sulla Concordia sono morti tanti lessici familiari, tanti rituali e tanti gesti che non ci saranno più. Quando poi sono salita sulla nave, ho dedicato tutte le albe di mezzanotte in Scandinavia e i paesaggi in Russia a loro, a tutti i lessici familiari che meritavano ancora di solcare questo e altri mari.
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