Di Alberto Smaldone
Negli ultimi decenni, l’Italia ha assistito a un progressivo e silenzioso svuotamento delle sue aree interne. In particolare, i borghi del Cilento, e più nello specifico quelli situati nella zona degli Alburni (tra Castelcivita, Controne, Ottati, Sant’Angelo a Fasanella, Roscigno, Petina e Corleto Monforte), rappresentano un laboratorio sociale dove è possibile osservare le conseguenze profonde dello spopolamento non solo sul piano demografico ed economico, ma anche su quello psicologico e culturale.

Il progressivo abbandono, l’incuria istituzionale e l’assenza di progettualità per i borghi degli Alburni contribuiscono all’aumento di un malessere esistenziale in forma transgenerazionale, colpendo tanto i giovani quanto gli anziani. Il trauma identitario non si riduce ad una condizione individuale, esso è un riflesso connettivo di fattori ambientali e sociali che contribuiscono alla costruzione di un senso di smarrimento del soggetto.
Spopolamento e marginalità strutturale Secondo l’Istat, l’area interna del Cilento rientra tra le zone più soggette a calo demografico e invecchiamento della popolazione. I comuni citati hanno registrato negli ultimi 20 anni una perdita di popolazione che varia dal 20 al 40%, con un’età media che supera i 50 anni.

Inoltre, il rapporto evidenzia che l’81,8% dei comuni con meno di 1.000 abitanti ha subito un calo della popolazione tra il 2020 e il 2021. Questo fenomeno è particolarmente rilevante nei comuni dell’area degli Alburni, come Roscigno, Petina e Corleto Monforte, che rientrano in questa categoria demografica.
Tale processo determina una riduzione significativa dei servizi essenziali (scuole, presidi sanitari, trasporti) e una crescente sensazione di isolamento comunitario.
La desertificazione culturale come trauma collettivo La perdita progressiva delle scuole, dei luoghi di aggregazione, delle feste patronali vissute come evento condiviso e generativo di legame sociale produce una forma di “desertificazione culturale”.

Gli individui, al di là della categorizzazione generazionale, interiorizzano la mancanza di futuro come esperienza esistenziale e affettiva. Non si tratta soltanto di “non avere opportunità lavorative”, ma di sentirsi parte di un mondo che lentamente si spegne, senza una narrazione in grado di creare una condivisione di senso.
In tale scenario, non bisogna concepire il turismo come indicatore di vitalità di un borgo, l’attività turistica appare sempre di più come una bolla, capace di concentrare in un tempo determinato e specifico (tipicamente estate) una quantità di visitatori animati dalla volontà di consumo delle attività del borgo.
L’idea del territorio come “parco giochi” da esplorare per esperienze silenziose, naturali, estranee all’acciaio delle città, esprime una tendenza esperienziale del cittadino europeo contemporaneo che vede il consumo dell’immagine del centro rurale senza un reale impatto sulle condizioni di vita di chi è presente nel tempo ordinario dei comuni delle aree interne.
Il turismo rischia di configurarsi come un elemento di evasione, una sbornia collettiva che sottrae concentrazione e risorse alle esigenze materiali dei borghi.
La salute mentale nei territori fragili Il Piano Nazionale della Prevenzione 2020-2025 dell’Istituto Superiore di Sanità ha evidenziato come i disturbi depressivi e ansiosi siano in aumento soprattutto nelle aree rurali e marginali del Sud Italia, dove si registra una scarsa accessibilità ai servizi di salute mentale. Gli abitanti dei borghi degli Alburni devono spesso percorrere decine di chilometri per ottenere assistenza psicologica o psichiatrica, rendendo strutturale l’assenza di supporto e amplificando il senso di abbandono.
Il PNP adotta una visione olistica della salute, riconoscendo l’interconnessione tra salute umana, animale e ambientale. L’approccio, definito One Health, è particolarmente rilevante per i borghi rurali, dove l’ambiente naturale e la comunità umana sono strettamente legati.
Il degrado ambientale e lo spopolamento possono influenzare negativamente il benessere psicologico degli abitanti.
Il PNP promuove un approccio intersettoriale, integrando la salute in tutte le politiche pubbliche. Per i borghi rurali, ciò implica la necessità di coordinare le politiche sanitarie con quelle relative all’istruzione, al lavoro, ai trasporti e all’ambiente per affrontare i fattori sociali della salute mentale.
Tutto si tiene in connessione. La salute è strettamene legata al fattore di convivenza sociale e culturale.
Le conseguenze transgenerazionali del malessere Il malessere nei borghi presenta varie forme. Negli anziani, si manifesta attraverso isolamento, nostalgia patologica e progressiva disconnessione dal presente. Nei giovani, invece, prende la forma dell’apatia, della fuga verso le città, o dell’emigrazione interna/esterna, spesso con vissuti di colpa nei confronti delle famiglie rimaste e un’identità frammentata tra il senso di appartenenza e il desiderio di evasione.
Il trauma, in questo senso, diventa un’eredità emozionale e affettiva che si tramanda tra generazioni. Le esperienze di “fuga”, “rifugio” e “abbandono” diventano parti di una catena del disvalore emotivo in grado di disintegrare il rapporto con il territorio.
I borghi degli Alburni non sono soltanto luoghi geografici ma spazi simbolici in cui si riflette il rapporto tra soggetto e collettività. Comprendere le forme del malessere in questi territori significa leggere un percorso collettivo che ha radici storiche, economiche e culturali.
Non intervenire significa abbandonare la possibilità stessa di immaginarsi come “persone” e definire luoghi, centri e zone di comunità come elementi fondamentali di un disagio esistenziale.
Alberto Smaldone
Fonti:
ISTAT, Censimenti permanenti. Popolazioni e abitazioni, maggio 2024.
Istituto Superiore di Sanità, Piano Nazionale della Prevenzione, 2020-2025