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“Parlando, di recente, con un giovane amico, nel riferirGli che, forse, scavando nei miei ricordi, avrei potuto farmi tornare in mente ciò che avevo visto fare, nella ormai mia lontana giovinezza, in una bottega di calzolaio dei tempi antichi, mi sono sentito stimolato a portare sulla carta tali ricordi.
Mi corre l’obbligo, peraltro, di premettere che quanto mi riuscirà di riferire è, appunto, esclusivamente frutto dei miei ricordi e potranno, quindi, esservi anche incertezze o imprecisioni.
Con i fatti, poi, per completezza, ho voluto riportare anche nomi di persone, di cui conservo un grato ricordo, augurandomi di non essere caduto in indelicatezze.
Per iniziare, riferisco che, tra il 1929 e il 1944 (e, successivamente, peraltro, anche in altri periodi), ho sempre trascorso con la famiglia il periodo estivo in Capaccio paese (o capoluogo, come si dice oggi). La casa, ove abitavamo, aveva vari locali al pianterreno, prospicienti parte del Corso Vittorio Emanuele (ora piazza Dott. Giuseppe D’Alessio): oltre alla ricevitoria del Lotto (chiamata, allora, botteghino), gestita da Tonio Arenella e ad un esercizio di barbiere, il quasi ottocentesco “Salone” di ‘Nduccio Rizzo – poi passato a Peppe Marino e conservato nella originaria struttura -, vi erano due botteghe di calzolaio: in una vi lavorava Pietro M. (appassionato, forse, più del buon dio Bacco che del suo mestiere, cui ebbe a subentrare, poi Francesco P.); nell’altra esercitavano il loro mestiere, che era un’arte, Ciccio Di Crisci e il figlio Rosario, appena rientrato, nei primi anni, dal servizio militare.
Ed in questa bottega – che oggi si direbbe “laboratorio artigianale” – amavo trascorrere buona parte del mio tempo da ragazzo, durante le vacanze di quegli anni, ed è, appunto, di quanto in essa avveniva che mi accingo a riportare quel che ricordo.
In una buona bottega di calzolaio dell’epoca si faceva, per le scarpe, di tutto: si riparavano, anche risuolandole, fino al limite del possibile, quelle rotte e consunte, vi si costruivano quelle “fini”, detta da passeggio. Negli ultimi periodi, a guerra iniziata, vi si facevano anche gli zoccoletti, detti “ortopedici”, richiesti dalle ragazze, con le suole aventi vari strati di sughero, incollati uno sull’altro e rifiniti nella forma. Ma l’attività prevalente era quella della manifattura, ovvero dell’intera costruzione, di scarpe pesanti e solide, da lavoro, sia per gli uomini che per le donne (queste erano le “chianelle”, aperte nella parte posteriore), e che venivano approntate durante tutto l’anno, ma prevalentemente in estate, anche su prenotazione e ricordando, comunque, i clienti dell’anno precedente, sì che ogni maestro calzolaio sapeva cosa doveva fare e tener pronto all’inizio del periodo autunno-invernale, quando, cioè, occorreva avere le scarpe nuove e che, quindi, venivano richieste e potevano …anche essere pagate, coincidendo il periodo con le realizzazioni dei raccolti e delle culture estive. Le scarpe, preparate, con le tomaie rilucenti, venivano sospese per il tacco, in bella fila, ai chiodi infissi nel muro, intorno alla bottega.
Ma come venivano costruite queste scarpe? Con quali materie? Di quale attrezzatura, soprattutto, si aveva bisogno per realizzarle?
Qui appare necessario premettere una, sia pur sommaria, descrizione del locale e, appunto, di tali attrezzature.
Nella bottega, ove andavo e mi trattenevo, ampia e soleggiata, vi erano:
-un bancone, ricoperto per buona parte da una lamiera di ferro zincato, sulla quale si procedeva al taglio del cuoio e della “vacchetta” (pelle di vacca conciata). Tale bancone funzionava, essendovi posata su anche una bilancia a due piatti, per la vendita di chiodi e degli altri articoli. Tra i clienti abituali, tre giovani (allora) “scarparielli”, i fratelli Milo, due dei quali, superstiti, hanno, ancora oggi, posto in bella mostra, come in un museo, nell’ultima bottega occupata, sita allo stesso Corso Vittorio Emanuele, poco prima del campanile, attrezzi, vecchie scarpe, foto di epoca e tante altre cose;
-un banchetto di lavoro, il deschetto, ma conosciuto a Capaccio come “bancariello” sito al centro di quattro sedie, due per i mastri, Ciccio e Rosario, e due per gli apprendisti, che erano, all’epoca, Giovanni L.T. (trasferitosi, poi, con successo, a Bologna) e Vincenzo R. Bancariello, nei cui ripiani (il primo, in alto, rotondo), divisi a scomparti, era riposto, a portata di mano, tutto quanto necessario per le lavorazioni;
-una macchina da cucire per pellami, marca Singer, che, quando usata, faceva un fracasso del diavolo;
-un vecchio braciere in rame, sempre pieno di acqua, occorrente per far “spugnare” il cuoio prima di lavorarlo, acqua attinta alla vicina Fontana dei Delfini, che, ancora oggi, passata a nuovo, fa bella mostra di sé, meglio conosciuta, allora, come “Fontana dei tre cannuoli”, avente un muretto circostante, sul quale era sempre seduto a riposarsi e prendere il fresco, il vecchio, già allora, ortolano “Simone”;
-due vetrinette, con entro esposto quanto in vendita o da usare. Principalmente le “semenzelle”, chiodini di ferro tronco quadro e testina piatta, lunghi, da mezzo a 2 o 3 cm., individuate con numeri, dal 14 al 15 circa. Tra l’altro, essendo mastro Rosario, all’epoca, componente della banda musicale di Capaccio, diretta dal maestro Pasquale Di Fiore, in una di esse era poggiato anche il suo strumento musicale, un “bombardino” e spesso, forse troppo spesso, sfidando la pazienza e la sopportazione del buon, vecchio maestro Ciccio, mi divertivo a fare i miei tentativi di suonarlo. Lascio immaginare con quali risultati!
Ma quali materiali vi erano, poi, particolarmente, nella bottega?
A terra, i rotoli di cuoio e, ritti, poggiati a una parete, alcuni fogli di cartone pesante, pezze di vacchetta, dalla quale tagliare e sagomare le tomaie, cioè la parte superiore delle scarpe.
Sul bancone e, principalmente, sul bancariello, vi erano:
-numerosi coltelli per calzolaio, in ferro, di foggia particolare, i c.d. “trincetti”, lunghi all’incirca una trentina di centimetri, aventi la parte tagliente, quasi diagonale, solo ad una delle estremità;
-tenaglie, raspe e qualche lima;
-le lesine, qui, allora, conosciute come “suglie”, che erano degli aghi molto grossi, ricurvi, a mezzaluna, muniti di manico, necessari per cucire le tomaie e il giardiuolo, di cui in appresso, insieme, nonché il tutto alle suole;
-gli spaghi predisposti per effettuare tali cuciture oltre, naturalmente, ai gomitoli di materia prima necessaria per prepararli (rigorosamente di canapa, della Bucky e Strangman di Sarno);
-le rivettatrici, per separare e rivettare, appunto, le cuciture e affinare i bordi estremi delle suole;
-i c.d. “piedi di porco” – non gli arnesi per scassinare! -, che erano pezzi opportunamente sagomati di duro legno di bosso, usati per dare estetica rifinitura alle suole e ai bordi delle stesse;
-una specie di piccolo matterello dello stesso legno (ma di cui non ricordo il nome), necessario per procedere alla lucidatura finale delle suole con l’aiuto di una discreta dose di …saliva dell’operatore;
-un pezzo di vecchio ferro da stiro, privo di manico, che, capovolto, poggiato su un ginocchio, era di base per la battitura della suola;
-un portaforme metallico, chiamato “o ciuccio”, da usare poggiato sulle due gambe dell’operatore, per procedere alle piccole operazioni di rifinitura delle scarpe complete, infilatevi;
-i martelli da calzolai, di forma particolare, che forse non saprò opportunamente descrivere, ma aventi due code, una a taglio e una piatta, quest’ultima fatta apposta per la battitura della suola; ed, infine, salvo ancora altre cose, che ora mi sfuggono;
-numerose forme in legno (fatte in una falegnameria specializzata di Scafati), di tutte le misure, anche la n° 46, che veniva adoperata per fare le scarpe di mio fratello; in due pezzi (parte di base e dorso, che, unite, costituivano l’intera forma di un piede), occorrenti per modellarvi le scarpe;
-sospesi alla parete: mazzetti di candelette, bianche, di sego di bue fuso, per ammorbidire, a costruzione compiuta, la tomaia, alla parte all’esterno, non lucida.
Descritti il luogo e l’attrezzatura, possiamo, ora, passare, per quanto, sempre, è nei ricordi, alla descrizione del procedimento di fabbricazione manuale di una scarpa da lavoro dell’epoca, richiamando, man mano, quanto è stato poco innanzi indicato.
Preliminari erano alcune operazioni. La preparazione della tomaia e l’approntamento, appunto, dello spago.
Cominciamo da quest’ultimo, che doveva essere di consistenza e, quindi, di resistenza, varie a seconda dell’uso, che se ne doveva fare. Il tutto derivante del numero dei capi con cui lo “spago” stesso era stato formato. Ma come si preparava questo “spago”? Posto sul bancariello il gomitolo, aperto dalla parte interna, vi si tirava fuori tanto filo rapportato alla lunghezza delle due braccia spiegate, sì da fare capi di circa mt. 1,50 ognuno. Si riunivano, poi, 4 o 5 o più capi, ritorti man mano per rendere il tutto omogeneo. Il capo complesso, così formato, veniva, poi, passato con la “pece greca”, che lo irrigidiva e rendeva impermeabile: così fatto, le due estremità venivano sfioccate per potervi applicare le “setole”, cioè baffi di cinghiale o anche di maiale, aventi funzione di aghi per introdurre, dai due lati, i capi dello spago stesso nei fori prodotti, nelle suole da unire, dalla poco innanzi ricordata lesina o “suglia” e procedere, così, alle cuciture.
Per la preparazione della tomaia, poi, venivano utilizzate le sagome di carta resistente, in varie misure, che erano infilate ad un chiodo sulla parete. Su di esse, poggiate sulla pezza di vacchetta si ricavavano, col trincetto, le varie parti di tomaia: quella anteriore, costituente, di fatto, un grosso mascherino, e le due latero-posteriori, unite, poi, con una cucitura a tergo e, poi, insieme alla parte anteriore. La tomaia era così formata e pronta per essere utilizzata.
Il maestro, poi, procedeva, alla scelta del cuoio per le suole: la parte migliore era della sommità della groppa: tagliatane quanta sufficiente, abbozzandone sommariamente la forma, questa veniva, per qualche tempo, posta a bagno nello innanzi ricordato braciere, pieno d’acqua, per ammorbidirla al punto da poterla agevolmente lavorare dopo averla battuta, non dal verso liscio, con la parte rotonda della coda del martello, su quel ferro da stiro, senza manico, già descritto, poggiato su un ginocchio dell’operatore.
Altro elemento da preparare era, poi, il c.d. “guardiuolo”, cioè la striscia di cuoio, anche se non della migliore qualità, lunga circa 50/60 cm. e larga circa 5, che veniva tagliata, di piatto, trasversalmente, sì da aversene, per ognuna, due, della stessa lunghezza, ma di forma triangolare, con uno dei lati ridotto quasi a zero. Sono stato comprensibile?
Tutto preparato, si prendeva la forma in legno, della misura occorrente. Vi si fermava, sotto, con pellame morbido, quella che doveva diventare la “chiantella”, cioè la fodera interna, di sotto, definitiva della scarpa e vi si adattava, poi, fermandola con alcuni chiodini, la tomaia, nel frattempo predisposta.
A questo punto si dava inizio alla costruzione vera e propria della scarpa e, per ogni elemento del paio, si procedeva, se mal non ricordo, nel modo seguente.
Un “guardiuolo”, spugnato, si fermava provvisoriamente, con chiodini lisci e tondi (non le “semenzelle”), quasi ad aureola, al bordo della tomaia, il lato più spesso e raggrinzendo, nella parte interna il lato più sottile: si otteneva, in tal modo, un bordo in rilevato, sul quale si procedeva alla cucitura, previa incisione del trincetto, con lo “spago” già preparato, della tomaia, togliendo, man mano che si procedeva, i chiodini tondi. Così per tutto il bordo esterno della pianta della futura scarpa. Si otteneva in tal modo, al grezzo, un primo embrione del manufatto, costruito sulla forma in legno. La tomaia, cioè, unita al guardiuolo e alla chiantella, residuando, però un largo incavo, al centro, costituito dalla differenza tra lo spessore dei tre elementi adoperati e quello della sola chiantella. A questo punto occorreva compiere un’altra operazione e, anche per questa, si distingueva il buon artigiano dagli altri: egli teneva sempre conservate delle vecchie scarpe fini, già usate e destinate allo sfascio: sfruttando, però, delle stesse le tomaie, che all’epoca erano di pelle di capretto o di vitellino, le tagliava in pezzi e le fermava, con colla, nell’incavo, di cui innanzi, sì da formarvi quasi un cuscinetto morbido e resistente, che non si infradiciava, per effetto dell’umidità, come il comune cartone, da altri usato.
Veniva poi compiuta un’ultima operazione veramente importante per la struttura della scarpa: l’applicazione, mediante una seconda cucitura, sempre previa incisione di un solco col trincetto, e con un altro spago, della suola vera e propria (preparata con la battitura, come poco innanzi ricordato) al guardiuolo, che già teneva fermo il bordo, intorno intorno, della tomaia; ciò per tutta la circonferenza della scarpa.
Ma qui l’opera non era affatto compiuta: occorreva la rifinitura del bordo, la costruzione e l’applicazione del tacco, la lucidatura della suola e l’applicazione del chiodame, le c.d. centrelle, di varia forma, consistenza e tipo a secondo della parte della suola o del tacco da proteggere.
Ricorderò quanto il maestro compiva per rifinire ogni scarpa:
-veniva, in primo luogo, usato, per la prima sgrossatura o appianatura del bordo di suola, guradiuolo e tomaia, il trincetto; poi si passava di taglio, una scheggia di vetro per completarla di fino. Dopo, divisi artisticamente i punti con la rivettatrice riscaldata alla fiamma di una candela, si utilizzavano: per il bordo, il “piede di porco” e, per la parte piana della suola, quella specie di piccolo matterello, di cui non ho ricordato nemmeno nella descrizione dell’attrezzatura, il nome. Tali arnesi, abilmente manovrati e con l’ausilio sempre di un po’ di saliva, rendevano lucide le parti trattate;
-il tacco veniva costruito ed applicato con una tecnica particolare, evitandosi (perché?) l’uso di chiodi di ferro. Per fermare i vari pezzi di suola, opportunamente ritagliati e sagomati, si traevano dei chiodi da un pezzo di canna, lunghi 2-3 cm., quasi cuneiformi, e li si utilizzava per la costruzione del tacco, che, così completato, veniva rifinito con la stessa tecnica del bordo e della suola;
-venivano applicati, poi, dei grossi chiodi a testa grossa, le “centrelle”, a difesa della suola e del tacco (ma che dopo qualche tempo cadevano, siccome liberate per la dilatazione delle suole per effetto dell’umidità e, quindi, occorrevoli di periodiche sostituzioni): tali centrelle di varia misura e tipo, potevano essere piccole, di testa piana, chiamate “vitarelle”, che guarnivano, di norma, la parte centrale della suola con un bel disegno, quasi romboidale, ovvero più grandi, con zigrinatura al bordo, chiamate “caporicce”, che venivano apposte, intorno intorno, alla parte periferica della suola. Per il tacco venivano anche usate delle punte semitonde, in lamina di ferro, applicate con chiodini, ai due capi della scarpa, ma con nessun risultato.
Per concludere l’opera, venivano, ai bordi superiori dell’apertura della tomaia, applicati, previa foratura del diametro occorrente, con una speciale macchinetta a mano, gli “occhielli” metallici, entro i quali, per chiudere la scarpa, si infilavano i legacci o “lacci”, rigorosamente di pelle.
La descrizione dell’operazione di manifattura di tali lacci può degnamente concludere questi ricordi. Predisposto un pezzo di vacchetta, perfettamente rotondo (si usava una sagoma o il compasso), di non più di 10/15 cm. di diametro, vi si eseguiva un piccolo intaglio, non perpendicolare, in un punto del bordo. Si afferrava il capo con due dita e si piazzava la parte più piccola, tagliente, di un trincetto: con gesto rapido e deciso, il maestro tirava a sé la punta stessa; girando il tondo di pelle, mirabilmente, si formava una spirale perfettamente omogenea, lunga quanto si voleva (dipendeva dal diametro del tondo predisposto) e di sezione quadrangolare, di 3-4 mm. che si rendeva poi tonda o quasi, passandola tra due tavolette di legno sfregate tra di loro.
Per chianelle da donna, le operazioni erano le stesse anche se, naturalmente, più semplici.
Si passava, infine, sulla parte esteriore della tomaia la candeletta di sego di bue, per cucirla e mantenerla morbida.
E così erano pronte, per essere calzate e usate, sulle pietre e nei terreni impervi delle nostre zone, poco meno di un secolo fa, le scarpe da lavoro, costruite dai nostri bravi e pazienti maestri!”
1/5/2008 – Guido D’Alessio