Undici pannelli esplicativi, più cinque pannelli istituzionali e due di presentazione, allineati sotto il porticato interno del Museo Diocesano in Piazza Plebiscito a Salerno, alcuni oggetti “ceramici” realizzati a colaggio, ed è la mostra “Collezione Salerno” che ha come sottotitolo “la memoria di una città in un oggetto”, in prosieguo del più ampio progetto “Il paesaggio e l’immaginario”, identità di una progettualità portata avanti dall’Associazione “Opificiocrea” che negli anni appena trascorsi ha presentato altri progetti per la città. Progetti sostenuti con intuibile lauto concorso economico dalla Regione Campania per una città come Salerno che da alcuni decenni è cantiere di trasformazioni. Progetti, però, che restano tali senza vedere una loro realizzazione sul territorio per quella auspicata nuova “umanizzazione” della città nel vivere diversamente i tempi attuali.
E subito si è assaliti dall’idea di un sogno, di una utopia che circonda questi progetti (vedi le belle e mai realizzate panchine illusionisticamente inserite in quel percorso recuperato tra la villa comunale e il Teatro Verdi) che, alla fine, restano pura esercitazione di professionalità e personalità dell’arte, dell’architettura, del designer. Tutto resta sulla carta e a beneficio unico di quei pochi che partecipano ad una presentazione o che riescono a tenere tra le mani il catalogo. Il tutto resta sconosciuto alla quasi totalità della città.
Eppure il coinvolgimento a questa iniziativa è notevole, il parterre presente alla serata di presentazione (non si po’ dire di inaugurazione) è stato di tutto rispetto: Regione Campania con il Presidente della Commissione Bilancio Franco Picarone, Comune di Salerno con il Sindaco Vincenzo Napoli, Camera di Commercio con il Presidente Andrea Prete, Università di Salerno, oltre al Presidente dell’Associazione promotrice Enzo Adinolfi e al curatore del progetto Pasquale Ruocco.
E fin qui sembra che tutto resti nella norma di una esposizione di idee, di progetti che prendono spunto da una “identità urbana – come ha sottolineato in catalogo il Presidente della Regione, Vincenzo De Luca – che contribuisce a una vivibilità umanizzata dello spazio/territorio”.
Così, a richiamo del sindaco Enzo Napoli, “Salerno ispira, medita, crea”. Nulla quaestio!
La cosa, però, sembra complicarsi quando si fanno riferimenti a storie ceramiche del passato, come a quella fantastica esperienza della fabbrica Ernestine che periodicamente entra a far parte di salotti culturali perché fa chic, e attraverso personaggi che fanno fatica a unire il momento storico passato con l’attualità: vera e propria incongruenza tecnico-culturale. Non ci si può, infatti, riferire a quella fabbrica salernitana, atto di grande amore tra l’ing. Matteo D’Agostino e l’artista americana Ernestine Cannon, sapendo che di quella produzione pochi erano gli oggetti realmente decorati dall’artista americana, mentre la maggioranza, seriale, erano realizzati con decalcomanie su disegno della Cannon. Era una scelta ben precisa che tendeva ad una produzione veloce, per raggiungere il mercato americano, dove l’oggetto era realizzato a colaggio, in pasta bianca. Oggi sono altri tempi, altro momento storico nel quale sarebbe opportuno e apprezzabile rimanere. Tra l’altro, a quanto sembra, non esiste una industria capace di produrre i progetti messi in esposizione e commercializzarli.
Ancora più confusionario sembra l’accostamento, a tutti i costi, con la ceramica di Vietri sul Mare, una località così vicina geograficamente e così lontana storicamente e culturalmente dalle proposte del progetto “Collezione Salerno”. Volere a tutti i costi portare avanti certi discorsi, come nell’intervento di Enzo Bianco, “artista/designer indipendente impegnato quotidianamente nella sperimentazione visiva”, come si legge nelle note biografiche, risulta soltanto una violenza alla bottega delle mani, dove artigiani-artisti da secoli hanno creato una civiltà fatta di argilla. Uno slogan dell’Ente Ceramica Vietrese di qualche anno fa, sotto uno splendido vaso “in movimento” del torniante Carmine Carrera, portava la didascalia “ci sono voluti cinque secoli per raggiungere questa perfezione”. Una perfezione di manualità che non si può rubare con l’esecuzione dei moderni sistemi a 3D, una civiltà protetta da una legge dello Stato che individua, e tutela, nella ceramica vietrese e di altri centri italiani una lunga tradizione di manualità, di artigianato, di sapienza dell’uomo nel plasmare e decorare la terra. Quella rossa, di Ogliara (identità storica di Salerno) e non per colaggio. Certamente sarà costato più di qualche ora a Livio Ceccarelli la realizzazione del suo “Gotico marino” in terra rossa rispetto alla “Zuppiera onda” in colaggio di Enzo Bianco.
Sembra, a tal proposito, quanto mai serio e importante ciò che ha scritto Marco Bignardi, che pure ha presentato un oggetto in colaggio (“Teiere coniche”): “Il progetto intende indagare il rinnovato sistema di relazioni esistenti tra il mondo dell’industrial design, dell’artigianato e quello dell’arte. Quindi di un lavoro di progettazione che deve verificare le successive fasi di produzione e vendita…(per cui) Bisogna sperimentare ‘quel genere terzo’, una sorta di sintesi tra artigianato e design, denominato semplicemente artidesigne”. E, per esperienza, crediamo che non sia facile far combaciare il design commerciale (i grandi numeri) con la realizzazione artigianale del pezzo unico e irripetibile. Sono due mondi distanti, soprattutto perché non sarebbe giusto togliere alla gente il piacere e la voglia di possedere un pezzo unico.
Vito Pinto