Il racconto e l’identità del Cilento sono argomenti spesso oggetto di analisi. Recentemente sono stati messi in relazione al processo di spopolamento che appare inarrestabile. Si concorda nel delineare la condizione di perifericità come fattore di debolezza e di progressiva irrilevanza economica e politica. Alcuni hanno tentato d’individuare alternative sollecitando coesione e competenze per superare il fastidio di una immagine di ruralità che genera imbarazzanti complessi d’inferiorità.
In via preliminare, probabilmente una attenta riflessione storica per individuare i processi che hanno fatto precipitare in questa condizione può risultare non solo utile, ma rivelarsi preliminare. A questo fine nelle prossime settimane si proporranno in alcune note delle considerazioni sulla storia cilentana degli ultimi duecento anni. E’ un tentativo innanzitutto per porre riparo al tradimento dei chierici, vale a dire gli storici che hanno contribuito a propagare una diffusa sfiducia verso il reame di Clio.
La frattura tra storiografia, politica, vita intellettuale e sviluppo della società si è consumata per l’acceso dibattito tra chi ha ritenuto indispensabile mantenere tradizionali distinzioni nazionali e chi ha preferito accreditare un caleidoscopio transnazionale di culture prestando crescente attenzione al locale e al regionale. Il tutto ha avuto delle deleterie conseguenze anche sulla didattica della storia minando l’equilibrio tra funzione informativa e formativa.
La storia è ancora studiata per informare innanzitutto sui fatti, ma è un apprendimento non fine a se stesso; esso è indirizzato alla coscienza per avere consapevolezza di un codice di comportamento. La funzione critica è auspicabile per evitare il ripetersi del tradimento degli intellettuali: chierici di tante chiesuole responsabili del pericoloso precipitare l’ethos degli italiani, sempre meno sensibili ai valori racchiusi nei concetti di Stato e di Nazione, di conseguenza poco attenti agli obblighi che derivano. Questo tradimento si perpetra quando in modo cosciente si propagandano idee di parte, preconcetti o dogmi facendoli passare per articolata analisi; invece essa rimanda a precise temperie culturali. Così si accreditano gli stereotipi, riproposizione di idee e di polemiche puntualmente superate quando il momento politico rende meno attuali prospettive d’indagine strumentalizzate dal potente di turno. Orientamenti democratico-radicali hanno giustamente criticato la storia celebrativa alla ricerca di un passato funzionale alla lotta politica e alle prospettive di chi ha interesse a favorire il moltiplicarsi di ricerche su aspetti sociali enfatizzando i concetti di classe e, più di recente, di genere, pretendono d’interpretare meglio le tradizioni democratiche. In queste posizioni sono confluite le varie anime della sinistra. Rispetto a questo crescendo di critiche, la storiografia liberale ha continuato a porre a base della vicenda complessiva del paese tradizionali valori civili, contribuendo ad omogeneizzare i risultati delle indagini di storici impegnati in una vasta ed inesplorata serie di analisi e con una diversa enfasi sui protagonisti delle vicende italiane.
La repulsione verso personaggi, episodi, momenti e movimenti che hanno segnato la storia nazionale ha determinato il diffuso convincimento di una condanna senza appello per presunti gravissimi crimini verso la storia. Ad esempio, nel Mezzogiorno si continua a diffondere una partitura superata, inadeguata, il più delle volte stonata e controproducente rispetto alle finalità educative. Dopo la fine delle grandi illusioni del XX secolo, nello svolgimento dei doveri didattici sovente si sancisce la condanna dell’Unità e del Risorgimento che –ironia della storia – sembra aver amalgamato vetero-gramsciani e neo-borbonici nel riproporre tesi rivelatesi al riscontro dei fatti approssimative, ma divulgate per un dichiarato orientamento, che sacrifica contenuti e condiziona valutazioni critiche ormai consolidatesi nella storiografia italiana ed estera.
La grave responsabilità per il disinteresse, per il rifiuto, per l’insensibilità, – peggio – per l’incapacità a partecipare ad un confronto di idee, la cui attualità etico-politico e culturale è evidente a tutti, rischia di far precipitare in un ghetto ricerca e insegnamento della storia, che oggi, invece, può rivelarsi un viatico per un sicuro approdo nel procelloso pelago di una condizione umana post-moderna che rischia di minare consolidate identità.
Il tempo storico con i suoi discontinui movimenti interni presenta le scansioni lunghe delle strutture, che segnano le relazioni tra fattori economici, sociali, geo-politici. Esse si accompagnano a quelle brevi, dinamiche congiunture che, se ridotte a semplice cronologia, fanno dimenticare aspetti intrinseci con conseguenti confusioni tra senso del tempo e senso della storia, che richiede conoscenza e coscienza del significato dei fatti nell’ambito di un processo temporale più ampio. L’interpretazione storiografica, fondata su tale consapevolezza, non s’identifica con la mera elencazione di episodi, richiamati soltanto dalla cronologia.
Una maggiore attenzione alle dinamiche socio-politiche enfatizza le relazioni tra i fatti, supera una periodizzazione esterna e valorizza i processi consentendo di cogliere anche il rapporto di non facile individuazione tra storiografia sociale e cronologia politico-diplomatica. Così anche la storia locale diventa matura, consapevole della propria validità anche se occorre osservare che molti saggi relativi ad ambiti circoscritti spesso mancano di tale sensibilità e non sempre aiutano a comprendere i problemi. Occorre evitare, ad esempio, il circolo vizioso della riproposizione in chiave mitologica delle vicende relative al XIX secolo, superare schemi narrativi di glorificazione del bel tempo che fu, individuare cause in grado di spiegare fatti e strutture.
Purtroppo, partendo da intenti celebrativi, sovente si trascurano dati significativi per cogliere i nodi tematici che collegano il Cilento alle dinamiche europee. Poco utile risulta l’analisi di discutibili affermazioni in pagine affastellate di dati, nomi, luoghi comuni, riformulazioni di giudizi che rimandano al sentito dire, al ripetere in modo confuso, al rifiuto di aprirsi al metodo e alle categorie scientifiche. Non di rado gelosi custodi di carte si ergono a pretenziosi guardiani della verità. Invece, tutti dovrebbero mettere a base dell’attività di studio, di ricerca, di diffusione e di organizzazione della cultura un atto di umiltà per predisporsi al confronto nella consapevolezza che, se il fatto storico, appartenendo al passato, è un dato non modificabile, la sua conoscenza è un processo in fieri da aggiornare incessantemente per perfezionarlo intessendo proficui dialoghi.
LR