Anni fa, da queste pagine, si andava indagando un concetto di facile assorbimento, legato solo in parte alla filosofia parmenidea e per niente attinente al linguaggio “sociologhese” di chi pensa di poter osservare la società dall’alto in basso. Si introduceva, nella maniera più semplice e diretta, una interpretazione della “dieta mediterranea” come stile di vita, comportamento etico, scelta estetica.
Nella sua (in)genuinità, il pezzo, si presentava limitato dalla premessa stessa. Non andava, cioè, oltre il titolo, tralasciando, l’autore (me medesimo), contenuti e contorni da intuire, che nemmeno erano stati accennati. Senza rivendicare alcun diritto di primogenitura sull’argomento, e dopo aver letto, anni dopo, articoli di quotidiani che ne sviluppavano finalità, in maniera ancora più sommaria e del tutto vaga, ritengo opportuno, oggi, ritornare su quella concezione esistenziale con la consapevolezza di chi cerca di metterne in pratica l’essenziale principio e viverne le condizioni. Nessuna pretesa, quindi, di esaurire, qui, la dissertazione, ma solo una testimonianza diretta di chi, quotidianamente, si impegna a sperimentarne le finalità.
E si comincia col dire che una “dieta mediterranea” che nutra il corpo senza coinvolgere la salute della mente, esiste solo nella concezione degli ossessionati della linea, del peso, della falsa leggerezza. Vi è che “una mente grassa appesantisce più di un corpo obeso” (autocit.), pertanto non vi è dieta funzionale che possa ritenersi distintiva dell’essere (parmenideo) se la sfera interiore di un mangiatore di mozzarelle e pomodori non viene interessata da un processo filosofico di sobrietà e genuinità. Risulta altrettanto ipotizzabile che non esiste bontà in una dieta finalizzata a privilegiare l’apparire sull’essere, poiché, in tal caso, si preferisce alimentarsi in virtù di un bisogno suggerito da continui messaggi pubblicitari, secondo un modello stereotipato, omologato, stampato, che ci vuole belli, ma non sani; snelli, ma non leggeri; piacenti, ma non attraenti. Per quanto ne sappia, la bellezza autentica non prescinde da un integro concetto di salute, leggerezza, fascinazione. Nell’ambito di un sano e consapevole pensiero di “dieta mediterranea”, ogni pietanza ingerita assurge a simbologia di una tradizione molto più antica di quanto si pensi, di origini magnificamente popolari, di credenze ancestrali taumaturgiche. La “dieta mediterranea” non è un regime di alimentazione per cure dimagranti o un elisir infallibile di lunga vita, ma è l’effetto naturale e conseguente di un’educazione alimentare di altissima concezione spirituale, ereditata da una finissima civiltà contadina che ne faceva uso per la più agevole delle esigenze di sopravvivenza. Ancel Keys, il nutrizionista americano di cui tutti sanno, ha avuto il merito di averne riconosciuto e divulgato le caratteristiche che determinano un impatto positivo con la natura biologica degli umani, cosa già abbondantemente e scontatamente nota ai nostri nonni, bisnonni e trisavoli, nonché a quei pochi medici di paese di inizio novecento; ben prima della seconda guerra mondiale, dunque, quando il militare-scienziato a stelle e strisce approdò nel Cilento. Il graduato Keis non ne è stato né l’inventore, né lo scopritore, in quanto non si può inventare e scoprire quel che è già in uso e conosciuto, da secoli, presso una civiltà, ma un autorevole sostenitore e divulgatore. Sarebbe anche ora di smetterla di ridurre al rango di sprovveduti indigeni la popolazione novecentesca del Cilento (gente che un secolo prima aveva organizzato dei moti, scrivendo pagine di storia) e di continuare a guardare al Keys come ad una sorta di antropologo che nobilita i costumi di una collettività, non già come il primo promulgatore moderno di una alimentazione che rifugge da qualsiasi idea di commercializzazione da supermercato.
La “dieta mediterranea” compete a produttori che elevano l’alimento a sponsor del territorio, esaltandone la qualità nel rispetto dell’ambiente e della tradizione e raggiungendo quella prelibatezza peculiare, che permette di assaporare, in modo esclusivo, un retrogusto culturale, dato da mani sapienti, da un metodo tramandato, da una cura particolare. Per quanto riguarda i consumatori, invece, occorre che questi si predispongano con l’animo a degustare prodotti di una bontà che ben si adegua ad uno stile di vita sobrio, autenticamente salutare, stilisticamente asciutto. Ecco spiegata l’assonanza esemplare tra il consumo di un prodotto culturale e uno alimentare. Significati e gusti che si intersecano, si completano e si uniformano, per dar luogo ad una identità desiderosa di modellarsi armonizzandosi con tutto ciò, che nella magnificenza della semplicità, sa di competenza e maestria: che si tratti di un detto antico giunto fino a noi per via orale o un fico essiccato ripieno di noci, di un’opera d’arte concepita con ispirazione o una melanzana dell’orto imbottita con sapienza.
La “mediterranea” non ammette sciatteria, si discosta dalle abbuffate da sagra, non contempla ingerenze di sorta e resta, in sostanza, una scelta culturale. Forse, elitaria. Forse, illusoria. Ed in quest’ottica, il Cilento, terra madre della “dieta” fin qui trattata, rappresenta, pur nella disattenzione della sua classe dirigente, l’ultimo baluardo alla dilagante estetica del disgusto, che da un paio di decenni, ormai, pervade in tutti i campi il Mezzogiorno e l’Italia intera.