Riprendo qui di seguito “Un viaggio nei paesi della rivoluzione cilentana”, anzi delle rivoluzioni cilentane che feci in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia. Ne venne fuori un interessante libro che pubblicai con la Casa Editrice Plectica.
Sento il bisogno di rifare quel viaggio, alla luce degli eventi politici e sociali che negli ultimissimi anni hanno sconvolto e cambiato l’Italia in generale ed il Cilento in particolare.
La storiografia ufficiale, borbonica, prima, e sabauda, poi, lo bollò come “terra dei tristi” e “covo dei briganti”, rifuggendo da qualsiasi benché minima interpretazione dei fatti in chiave sociologica e politica. E da allora il Cilento non si è scrollata di dosso l’immagine negativa che ne ha segnato emarginazione e sottosviluppo: a nulla sono valse le poche, ma generose, voci contrarie (Mazziotti tra queste), che sull’onda della passionalità, sfociata spesso nella retorica, ne hanno offerto un’altra lettura.
E la memoria dei paesi si è affidata, così, per lunghi decenni, a lapidi e toponomastica, rinfrescate, di tanto in tanto, da ripetitive liturgie, con discorsi di circostanza e deposizione di corone in cerimonie commemorative. Nella ricorrenza del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, sarebbe stato opportuno e doveroso dare voce e protagonismo ai paesi, che scrissero pagine memorabili di eroismo nel corso delle “Rivoluzioni Cilentane” nell’evolversi del vissuto di molte comunità di mare, di collina e di montagna. Non sono uno storico. Faccio il mestiere del giornalismo, sforzandomi al meglio. I fatti storici mi servono come pretesto per “narrare il territorio”, attingendo al passato ad invasione di presente ed a proiezione di futuro. In più occasioni ho abbozzato, anche nelle pagine di questo giornale, una sorta di “itinerario della libertà”, attraverso i “paesi della rivoluzione”, destinandolo, innanzitutto, agli Amministratori Locali e, poi, ai ragazzi delle scuole di ogni ordine e grado: ai primi, perché recuperino la memoria storica delle loro comunità, ne siano gelosi custodi e la immettano, con intelligenza, nei circuiti fecondi del mercato della cultura; ai secondi, perché, sotto la guida consapevole e motivata dei docenti, attuino impegnativi percorsi didattici alla scoperta delle radici con l’orgoglio di identità e di appartenenza. E spesso ho ripercorso a passi lenti piazze, strade, slarghi, vicoli con il naso all’insù a leggere lapidi che rievocano eventi ed immortalano eroi: Nomi a me familiari e che mi risuonavano dentro quasi per un appello d’amore convenuto. Scandivano i ritmi della mia infanzia e della mia formazione giovanile, mi accendevano l’interesse per la ricerca storica, mi consentivano scoperte di un vissuto in cui mi identificavo con legittimo orgoglio, si trattasse di Trentinara, mio paese natale, o di quelli vicini, Capaccio, Monteforte, Agropoli, Torchiara, Rutino, ecc:, comunità tutte che, nell’ora della storia, avevano risposto all’appello con dignità e fierezza. E dalle pagine dei libri fuoriuscivano i miei padri forti e generosi a difendere fino al supremo sacrificio della vita la fedeltà agli ideali di libertà, a contrastare, pochi di numero ma carichi di ardimento, le armate borboniche agli ordini del Maresciallo Del Carretto o del colonnello Recco, arroganti di mezzi e di uomini e determinati, nel 1828 il primo e nel 1848 il secondo, a riportare l’ordine nel Cilento inquieto, in nome del Re Borbone e dei baroni reazionari, timorosi di perdere prestigio e averi. Finirono tutte nella repressione e nel sangue le rivoluzioni cilentane con la morte per mano assassina dei loro capi, eroi eponimi: il canonico Antonio De Luca nel 1828, Costabile Carducci nel 1848, Carlo Pisacane nel 1857.
Quegli eventi meritano una qualche riflessione serena sul perché dei loro fallimenti. Lo hanno già fatto e lo faranno ancora gli storici di professione. Io vorrei sommessamente sottolineare che le rivolte cilentane ubbidirono quasi sempre ad un generoso impulso di RIBELLISMO e non divennero quasi mai RIVOLUZIONE. Si trattò, cioè, di contributi generosi di minoranze illuminate che testimoniarono le insofferenze e i soprusi dei popoli soggetti e gli diedero voce con gesti emblematici e plateali, ma non ebbero quasi mai il consenso ed il sostegno del popolo, senza il quale ogni atto rivoluzionario è destinato al fallimento. La Storia è piene di esempi di questo tipo, a cominciare dalla Rivoluzione Napoletana del 1799, di cui uno storico del livello di Cuoco, che pure di quella rivoluzione fu protagonista generoso, ne individuò fin da subito le cause del fallimento: le rivoluzioni, scrisse, non si esportano e non hanno successo se alla guida motivata di intellettuali illuminati non fa seguito la partecipazione convinta del popolo.
L’insegnamento che ne deriva è che la vera e più duratura delle rivoluzioni la si fa attraverso il RIFORMISMO, che indica la trasformazione della società attraverso tappe intermedie, che abbiano, però, ben presente l’obiettivo da raggiungere ed operino con coerenza a conquistarlo.
Ma, forse, proprio il 150° dell’Unità D’Italia avrebbe dovuto offrire l’occasione per una riflessione serena del nostro passato, per recuperarne lo spirito, farne tesoro ed attualizzarlo, alla luce del presente, in cui l’unità del Paese è ancora al di là da venire e su cui soffiano venti impetuosi di disgregazione più che di aggregazione. Il Sud, in generale, ed il Cilento, in particolare, avvertono ancora l’esigenza di pareggiare i conti con la storia in un rapporto di dare e avere in cui noi TERRONI, tanto per mutuare il linguaggio da un libro di Pino Aprile, bello ed avvincente, anche se rischia di trasformarsi, spesso, nella retorica dell’antiretorica.
Un “itinerario della libertà”, attraverso i “paesi della rivoluzione” potrebbe riequilibrare la verità storica, con ricerche documentate. L’errore in cui non bisogna assolutamente cadere è quello di trasformare eventi e personaggi delle nostre “rivoluzioni” in personaggi da baraccone per manifestazioni turistiche (!), che hanno poco o niente di storico e di culturale. Il rischio c’è e la tentazione è forte da parte di sindaci ed assessori che prendono a pretesti fatti storici per imbastire manifestazioni senza spessore e, quel che è peggio, senza utilità che non sia quella effimera di una giornata di festa. Non vorrei che dopo le sagre gastrodemenziali delle tipicità (!) si diffondessero anche le “sagre della storia”.