A volte il calendario sbriglia la fantasia. È il caso della ricorrenza della festa di San Martino, santo molto venerato nei paesi del mio Cilento, come, d’altronde, in tutti quelli della civiltà contadina. Chi come me ama le tradizioni non può fare a meno di rievocarle, soprattutto se, come nel caso specifico, recuperano la enogastronomia, che fu ed è alla base della Dieta Mediterranea, sulla quale pontificano in ripetitivi e stantii bla bla bla esperti improvvisati e un po’ cialtroni, a caccia di facile visibilità. Ma non dicono quasi mai che l’anima della dieta nata nel Cilento e sistematizzata con rigore scientifico dal grande nutrizionista americano, ma naturalizzato cilentano, Ancel Keys, è la ruralità praticata dalle nostre mamme e dalle nostre nonne, regine e sacerdotesse delle nostre tradizioni secolari, che, forse inconsapevolmente, erano eredi dei miti e preparavano un “cibo degli dei”.
Sul tema delle tradizioni legate alla festa di San Martino e, in parte, anche della Dieta Mediterranea, scrissi qualche tempo fa per il settimanale Unico una riflessione che ripropongo qui di seguito sul sito online dello stesso giornale in occasione della festa di San Martino, appunto.
La festa di San Martino, che ricorre, come tutti sanno, l’11 novembre, si carica da sempre di leggende e tradizioni legate alla civiltà contadina. E in molte regioni d’Italia e d’Europa il Santo viene ricordato come patrono del vino dei viaggiatori, dei mercati, della breve ma gradevole “estate” di novembre, conosciuta come “estate di San Martino”, appunto, ed anche dei cornuti. Avete letto bene, sì anche dei cornuti. Pare, infatti, che il Santo vescovo di Tours, in Francia, era solito portare sempre sulle spalle la sua bella sorella per difenderla dai predoni che attentavano alla sua verginità. Ma la sorella, come tutte le donne che ne sanno una più del diavolo, ne seppe una più del fratello e riuscì a sfuggire al suo stretto e rigoroso controllo e trovò il modo di concedersi senza freni ad un predone che le aveva rubato il cuore e non solo. Ma mettiamo da parte leggende legate alla pruderie di contadini buontemponi e diamo credito, invece, ad altre più credibili e legate all’enogastronomia con menu tipici per celebrare a tavola la festa del Santo.
E mi rifaccio, per cominciare, alla tradizione della cucina povera cilentana. Si tratta di una pietanza, frutto dell’inventiva delle donne della civiltà contadina e, pertanto, diffusa, anche se con nomi, impasto, forma e condimenti diversi nelle varie regioni d’Italia. È opportuno farne alcuni cenni storici. È d’obbligo sottolineare, fin da subito, che per esaltare la qualità di una pietanza particolarmente elaborata e, conseguentemente, prelibata e gustosa si ricorre, ancora oggi, all’espressione “boccone del prete”. Si giustifica, così, il termine “Strozzapreti”, particolarmente diffuso in Romagna e nelle Marche. Si tratta di un particolare tipo di pasta fatto a mano, che richiede una discreta maestria nella lavorazione. La sfoglia tirata con il mattarello e di spessore piuttosto consistente e tagliata a strisce di circa cm 1,5 di lunghezza e 5 di larghezza richiede sughi e ragù corposi, ricchi e densi piuttosto elaborati come condimento. La preparavano le donne romagnole per destinarla alla tavola del prete nei giorni di festa. I mariti, notoriamente anticlericali da quelle parti, le diedero il nome di “strozzapreti” augurandosi in cuor loro che il prete si strozzasse mangiandoli con eccessiva ingordigia e tenuto conto anche della dimensione della pasta fatta a mano.
“Strangotti” ed anche “strozzapreti” vengono chiamati in Umbria ed indicano un tipo di pasta lunga fatta a mano con impasto di acqua e farina. Nella cucina laziale gli strozzapreti sono spaghettoni tirati a mano. A L’Aquila gli “strangolapreti” sono grossi cordoni impastati con farina di grano duro, lunghi circa 20 cm. Anche a Nord, nel trentino, sono chiamati “strangolapreti”, ma assumono la forma di gnocchi di pane raffermo. Nelle regioni meridionali si chiamano “stragolaprieviti” (Calabria, Irpinia, Puglia, Basilicata) ed hanno la forma di gnocchi di varie dimensioni. “Li strangolaprieviti” cilentani hanno la forma di grossi gnocchi. L’impasto è normalmente di farina di grano duro ed il condimento è identico a quello del comune “cavatiello” e del fusillo: ragù di castrato, cotto a fuoco lento nel “tiano” di creta (dove “pippeia” per ore), formaggio pecorino o, meglio ancora, di ricotta salata ed una punta di peperoncino forte. Era uno dei piatti tipici dei giorni di festa (l’altro erano i fusilli) ed il termine non assumeva nessuna polemica anticlericale. Aveva un nome diverso ed una dimensione ancora più grande quello che si cucinava a novembre in occasione della festa di San Martino e proprio per questo chiamato “santomartino”, quando ricorreva una sorta di festa dell’abbondanza con la molitura delle olive (olio), con il vino fermentato al punto giusto, “a San Martino ogni musto è vino”. Si completava, così, la terna della raccolta iniziata a luglio con la pisatura del grano. E in questo modo la triade della alimentazione mediterranea, diventata, poi, dieta, esaltata anche oggi dai grandi nutrizionisti, era completa.
E, forse, anche per questo nel Cilento, in generale, e a Trentinara, (per chi non lo sapesse è il mio paese) in particolare, quando si vuole fare un augurio di prosperità, di buona salute, in occasione di un matrimonio o della nascita di un bambino, si usa l’espressione: “BENERICA!!! SANTOMARTINO!!!”. Il ricordo delle belle tradizioni della civiltà contadina della mia terra di nascita mi scatena quasi sempre forti emozioni e, spesso, le emozioni si fanno poesia in versi musicali nella rasposa sonorità del mio dialetto: “A San Martino ogni musto è vino!”/Se ngegnava la votte re barbera/p‘accumpagnà no piatto re fusiddi/re cavatielli o re santomartini/cunzati co lo suco re castrato,/pepaolo e lo caso re recotta,/na scianga re addina e no cuniglio/cuotto co le patane a la turtieri/co na vranca re volena p’addore./Lo pane frisco nzimma na gratiglia/friìa co l’uoglio nuovo a stizze r’oro./E nu vrularo ca scuppetiava/accumpagnava chiacchiere a fa notte./E spisso nce scappava co l’amici/n’accordo re chitarra e na canzona,/re chere antiche, a la celentana./Mbacci lo muro appiso no granato/rirìa cu li cuocci e se priava.
P.S. Vorrei ricordare a me stesso che il menu della Festa di San Martino, così come ricordato nella testimonianza di amore dei miei versi, va alle radici della “dieta mediterranea”, di cui tanti, troppi, si improvvisano e si autoproclamano esperti e si arrogano il diritto/presunzione di innovarla, spesso imbastardendola. C’è troppa gente che cicaleggia e civetta (con aria di supponenza) in giro. Per tacitarla basta recuperare esaltare ed inserire nel menù le ricette delle nostre mamme e nonne cilentane. È il suggerimento che mi permetto di dare ai nostri bravi ristoratori, soprattutto quelli del mio paese, Trentinara, “Le Antiche Mura” e “Lo Vuttaro”, che, qualche anno fa, si sono piazzati con merito rispettivamente al primo e all’ottavo posto nella speciale classifica dei ristoranti cilentani. Ma anche gli altri che non occupano i primi posti non son da meno nell’offerta di qualità dei loro menu. Buon San Martino a tutti e Buon Appetito!
SANTO MARTINO
Nel giorno di San Martino a tavola si mangia nel Cilento una specialità gastronomica tipica della civiltà contadina, “li santo martino” che prende il nome dal Santo, come si evince dalla poesia che segue
“A San Martino ogni musto è bbino”,
ricìa lo nonno c o n’arciola mmano
stesa, rerenno, sotta na cannedda
quanno ngegnava la vuttecedda zeca
p’accumpagnane li santo martino.
Sò maccaruni gruossi fatti apposta
re chisti tiempi pe lo buono augurio
pe le campagne e pe li cristiani.
E ppure mò trasenno inta le casi
se rice ancora pe bona crianza
“Santo Martino, co a bona sciorta“!”
E li santo martino sò cunzati
Co suco re castrato e co lo caso
re recotta re pecora salata
curata appesa nzimm< nu cannizzo.
Stragolaprieviti le chiama puro
la vecchia zia Cristina ca ricorda
ca chisto è tiempo re mangià pesante
mò ca trase lo friddo inta l’osse;
vrupccpli sfritti co la sauzicchia
co lo pupacchio inta lo tiano
Pane arrustuto poi co l’uoglio nuovo
e bbino a volontà mbacci lo fuoco.
E futtitinne re lo maletiempo
si veveca pe zimma le muntagne.
Re chisti tiempi tengo no ulìo
re vino nuovo, vruocculi re rapa
Scuppettianti inta lo tiano
co lo pupaccchio e co la sauzicchia.
Vulesse no piatto chino chino
re li santo martino colo caso
Curato appiso nzimma no cannizzo
Cunzati co lo suco re castrato
(tratta da Giuseppe Liuciio:CHESTA E’ LA TERA MIA- Galzerano Editore)