Pensava sempre al mare come a “la mar” come lo chiamano in spagnolo quando lo amano. A volte coloro che l’amano ne parlano male, ma sempre come se si parlasse di una donna. Alcuni fra i pescatori più giovani …ne parlano come “el mer” al maschile. Ne parlano come di un rivale o di un luogo e perfino di un nemico. Ma il vecchio lo pensava sempre al femminile e come qualcosa che concedeva o rifiutava grandi favori e se faceva cose strane o malvage era perché non poteva evitarle. “la luna lo fa reagire come una donna” pensò…
Prima che fosse giorno chiaro aveva gettato le esche e si lasciava trasportare dalla corrente…
Il sole sorse lieve sul mare e il vecchio vide le altre barche basse sull’acqua e vicine alla riva, sparse nel corso della corrente. Poi il sole divenne più luminoso, il mare liscio lo fece rimbalzare negli occhi del vecchio dandogli un dolore acuto, per cui continuò a remare senza guardarlo»
Ernest Hemingway – Il vecchio e il mare.
Seduto sulla panchina in ferro, all’ombra della Madonnina, il vecchio scruta lontano, oltre l’estrema punta del porto, gli umori del vento e del mare, quasi si apprestasse ancora a condurre la sua lampara sulla consueta scia della pesca notturna.
Alle spalle è un grappolo di barche tirate a secco al limitare del bagnasciuga, qualche rete appena rammagliata, un gruppo di case che si allungano verso il raccolto della valle.
Non è un paese cubano raccontato da Hemingway, ma Cetara; né il vecchio è Santiago, ma Pietro (questo il suo nome?), che forse non ha mai avuto modo di sentir parlare del libro, del suo autore e di quei personaggi così uguali tra loro sol perché nati vicino ad un mare, da cui prendono di che vivere nel difficile quotidiano.
Le mani raggrinzite di Pietro sono, però, le stesse di Santiago, hanno le uguali cicatrici profonde che gli sono venute trattenendo con le lenze i pesci pesanti; cicatrici antiche, come erosioni di un deserto senz’acqua.
E come le mani, tuto è vecchio in Pietro, proprio per un antico rapporto col mare, col sole mediterraneo. Che illumina e riscalda queste ed altre lontane coste.
Soltanto gli occhi neri, saraceni, sono allegri e indomiti.
Una volta si usciva dal porto di Cetara appena calato il sole oltre le accostate cime dei Lattari. Le lampare sfilavano in silenzio, quasi radenti il molo di sottovento, una dietri l’altra come tante monachine per i corridoi d’un convento.
Appena fuori si aprivano verso le rotte della loro pesca. La flotta tonniera era poi il vanto di questo antico borgo sbalzato dal mare su una stretta lingua di terra, come un delfino in cerca di una cala per la sua eternità.
E chissà che non sia stato proprio una magia del tempo dei miti e degli eroi a trasformare un cetaceo in un luogo chiamato Cetara.
Di sicuro queste case nascoste nelle segrete gole del Monte Falerzio, da sempre sono esistite in rapporto con il mare.
Narrano le “historiae” che i romani erano ghiotti di “gaurum” una prelibata salsa di alici che facevano giungere da Cetara. Era quella che oggi chiamiamo la “colatura di alici” e che ancora serve a condire saporiti piatti di spaghetti.
Nelle “Ricerche storico-topografiche” il Can. Andrea Carraturo così scrive: «Dopo un breve tratto di mare al di là del già descritto attuale porto di Fonti (52) e del suo lato meridionale, incontrasi sul prossimo lido questo Casale di Cetara. La sua locale posizione in un’angusta Vallata appié delle imminenti balze e rupi dell’alto Monte Falerzio Maggiore, lo rende alquanto infelice; ma il prospetto ad oriente del vicino mare e di un gran tratto del golfo e delle lontane maremme di Salerno, unito al pregio dei molti vigneti adiacenti e dal vantaggio che gli appresta il fiumicello e specialmente alla abbondanza e squisitezza del pesce delle sue coste, che forma l’unico e lucroso ramo del suo commercio, compensa non poco il difetto del sito».
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Dal 1806 Cetara era villaggio di Vietri sul Mare, poi con real decreto del 1833 divenne Comune autonomo. Ma le cronache storiche dicono che «Cetara era l’ultimo possesso della Repubblica d’Amalfi verso est» Sin dal 1030, infatti, Cetara fu debitrice al Vescovo d’Amalfi, dal quale dipendeva, dello “ius piscariae”. La decima della pesca. Nel 1120 passò ad Amalfi anche come dominazione politica, poi con i Normanni fu soggetta alla Abbazia Benedettina di Erchie e infine a quella della SS. Trinità de la Cava. Ma Cetara fu anche paese di pirati, tanto che benissimo Emio Salgari poteva evitarsi l’affanno della ricerca sul mappamondo di terre lontane ove situare i suoi eroi. Nell’879, infatti, Cetara fu occupata dai Saraceni che vi si stabilirono per alcuni anni e tennero nella vicina Cala di Fuenti le galee per le loro scorrerie. Dopo alterne vicende di cacciate e ritorni, nel 1534 il turco Sinan Pascià, chiamato dal Principe di Salerno Ferdinando Sanseverino, ribelle a Carlo V, l’occupò «menando seco trecento abitanti in ischiavitù» e trucidando quanti non vollero imbarcarsi. Dopo di allora si pensò alla costruzione di quel sistema difensivo di torri costiere, una dlle quali, forse il più splendido esemplare, domina la spianata del porticciolo dalla sua leggera altura a picco sul mare.
La chiesa madre di S. Pietro, con la cupola maiolicata, è quasi a portata di mano di chi percorre la Strada Statale 163 Amalfitana. Viene menzionata per la prima volta in un documento del 988, ma l’attuale struttura risale al XVIII sec. Al suo interno è spolto Grandonetto Aulisio, pescatore divenuto eroe per aver portato in salvo a Napoli, con una romanzesca fuga da Salerno, il principe Federico, secondogenito di re Ferdinando I d’Aragone, nel 1485, al tempo della “Congiura deiBaroni”.
E oriunda di Cetara è Suor Orsola Benincasa, rappresentata negli affreschi del Convento di San Francesco, mentre salva il paese dall’assalto dei turchi.
A Cetara si passa su i suoi tetti e quasi non ci si accorge della sua grazia e delle trasformazioni che in questi ultimi anni il paese si è imposto. Neanche i viaggiatori del Grand Tour si accorsero di questo borgo nonostante il forte richiamo del pesce fresco e dei limoni. Qualcuno scrisse che «la terra di Cetara vedesi situata in una angusta, ma lunga vallata, anticamente murata dalla parte del mare, e cinta dalle imminenti balze dell’elevato monte Falerzio, tutto vestito di boschi e di vigne».
Nel 1827 August von Platten ricordava: «Ho fatto il tour da Eboli a cavallo, da Salerno a Citara in una barca di pescatori e più avanti fino ad Amalfi a piedi».
Ancora oggi sembra non accorgersi di Cetara. La decimazione della flottiglia per le tonnare – una volta vanto della marineria italiana meridionale – ha imposto una correzione di rotta, anche se l’attività primaria resta la pesca.
Da qualche anno Cetara sta assumendo un volto turistico e, con molta discrezione e determinazione, si sta ritagliando un suo spazio elitario nel caos del turismo di massa. Le splendide cale della Scavatella e della Lagna sono allettanti inviti a tuffarsi in un mare limpido.
Ma la strada sembra ancora lunga ed impervia, soprattutto perché qui la gente ama il mare, il suo mare dal quale trae la vita, non in termini turistici, ma alla maniera del vecchio Santiago di Hemingway.
Come in tutti i borghi marini, anche i pescatori di Cetara sentono l’odore del vento di terra; ma in questo borgo, che dalla Valle stretta si allunga verso il mare, il vento di terra porta ovunque l’odore pungente delle alici in salamoia, misto all’acre dei limoni grondanti di giallo su per i verdi maceri. Sulle foglie dei limoni qui cuociono e si servono i diafani bianchetti, i “cecenielli”.
Negli ultimi chiarori del giorno, Pietro scruta ancora l’orizzonte oltre il molo. Nel respiro piano il vecchio pescatore annusa l’aria, il vento che spira: «domani sarà bello» dice quasi soprappensiero. Intorno a lui annuiscono i “fratelli della costa”, mentre avviano i passi lenti verso case bianche affastellate, antichi covi nei quali hanno racchiuso i pezzi della loro vita dopo ogni ritorno dal mare.
«Di solito, quando sentiva l’odore del vento di terra, si svegliava. Ma quella notte l’odore del vento di terra giunse molto presto e nel sogno capì che era troppo presto e continuò a sognare per vedere i picchi bianchi delle isole che sorgevano dal mare e i porti e le rade» pescose di isole lontane, isole felici come quella tracciata da Guido Gambone su un grande piatto di ceramica.
Pietro non sapeva chi fosse Gambone e non sognava più tempeste o donne, né grandi avvenimenti o grossi pesci, né zuffe o gare di forza e neanche più della sua donna. Ora il vecchio di Cetara sognava solo luoghi lontani, oltre ogni molo disastrato ed ogni ultimo orizzonte ove il mare brulica di alici, ha il profumo di alghe e il tepore dei giorni di primavera.