Per un artista, uno scrittore, un giornalista non c’è nulla di più importante, forte, necessario di una esperienza diretta, da tradurre in immagini, parole, frasi immaginifiche, avvolgenti il fruitore in una sorta di rigenerazione morale. E spesso per raggiungere questi obiettivi è necessario intraprendere il viaggio, una andata e un ritorno, termini tra i quali vi è il tempo del probabile coinvolgimento del protagonista. Viaggiò il popolo ebreo verso la “Terra promessa”, viaggiò Ulisse per ritornare alla sua Itaca, viaggiò Enea in cerca di una nuova Patria. Vi è sempre stato per l’uomo la ricerca di un “Paradiso perduto”, o il “sempre cercato giardino d’infanzia” di Salvatore Quasimodo, ovvero la ricerca della terra d’origine da cui parte la personale storia umana, così intensa negli scritti di Hemingway, come metafora di una umanità volta al viaggio, fosse anche quello della ricerca dell’isola che non c’è, così cara al tratto ceramico di Guido Gambone.
Dice Renaldo Fasanaro, architetto e artista: «Nulla, oggi che, con internet, tutto sembra a portata di mano, è più prezioso di una esperienza diretta con la realtà, l’esistente, di ciò che si percepisce di quanto resiste all’usura del tempo». Così, e non per la prima volta, intraprende il suo “viaggio inverso” alla ricerca di luoghi, oggetti, emozioni, immagini che in qualche modo lo possano riportare al mondo avventuroso e nel contempo semplice di Ernest Hemingway, quel mondo in cui lo scrittore americano si tuffò per capire e scrivere con un nuovo linguaggio un vocabolario letterario di immediatezza. E lo fece con il piglio dell’uomo di mare alla spasmodica cattura di Marlin, dell’uomo amante dell’avventura a caccia del leone nero nel safari africano.
Una grinta che non è mancata a Fasanaro nel raccogliere cimeli di Hemingway, come una copia fedele della Underwood Portable Mariven Typewrite, la macchina da scrivere che il Nobel si portava sempre dietro; e libri nelle edizioni originali delle opere scritte dal 1923 al 1961, scattando fotografie dei luoghi simbolo, raccogliendo quelle emozioni incontrate durante il lungo cammino, quasi pellegrinaggio, sui sentieri hemingwayani. Quasi pensiero ad alta voce Fasanaro sussurra: «Sono tornato con un’ispirazione così forte che non ho potuto fare altro che mettermi a dipingere i miei acquerelli». E sono ritagli di colore nell’ampiezza telata di una bianca superfice, essenzialità cromatiche, come quella semplicità ed essenzialità che caratterizzava la prosa di Hemingway: frasi brevi, semplici, concise, prive di parole superflue. Anche Fasanaro nei suoi dipinti toglie e non aggiunge. Sembra quasi una “transumanza” di idee dagli scritti di Ernest alle tele di Renaldo, dove viene rappresentato lo scrittore americano caricandolo di fascino nello sguardo profondo, puntato su un infinito futuro noto solo a lui, o nell’impegno della scrittura, luogo di silenzio e solitudine dove lo scrittore popola il suo mondo immaginario.
Ma Fasanaro riprende anche i personaggi di quei racconti: e sono cacciatori, pescatori, contrabbandieri, prostitute, viaggiatori, gli amori palesi e non, con la loro bellezza terrena goduta dallo scrittore, e quella immaginifica sentita dall’architetto-pittore, personaggi che ancora oggi parlano agli uomini di questo terzo millennio dell’era cristiana, che sembra sempre più imbarbarirsi: forse è questa la “generazione perduta” che Gertrude Stein coniò nel suo salotto parigino di rue de Fleuers per i giovani dell’epoca hemingwayana. «“Ecco che cosa siete, voialtri” disse la signorina Stein. “Tutti voi giovani che avete fatto la guerra. Siete una generazione perduta.” … pensai che tutte le generazioni erano perdute da qualche cosa e lo erano sempre state e sempre lo sarebbero state».
Fu la Stein a suggerire ad Hemingway di andare in Spagna, paese che amò profondamente, definendo Madrid “la capitale del mondo”: ne attraversò le strade, ne conobbe ogni angolo. Di questa città conosceva ogni cosa “ristoranti e camerieri, alberghi e concierge, stanze e ascensoristi, bar e creatori di cocktail, politici e sale del potere, ruffiani, toreri, affettatori di prosciutto, impresari bolsi e fosforosi, allevatori, bigliettai, bagarini, giornalisti, critici e poeti”. Spesso di sera a Madrid andava a cenare da Botìn, forse il più antico ristorante del mondo, dove Goya aveva lavorato come lavapiatti: lì c’è ancora il tavolo al primo piano dome Hemingway scrisse molti suoi racconti e dove ambientò l’ultima scena di “Fiesta”.
“Viaggio inverso” quello di Fasanaro, che parte da Cuba, ultima residenza dello scrittore americano, per passare poi a Parigi e quindi giungere in Italia, sulle rive del Piave dove Hemingway fu volontario della Croce Rossa Internazionale nella prima guerra mondiale.
Nell’isola caraibica, governata dal dittatore Fulgencio Batista (erano ancora lontani gli anni in cui Fidel Castro avrebbe preso il potere scacciando Batista), Hemingway prese fissa dimora nel 1939, dopo due brevi puntate negli anni precedenti, e si stabilì a Villa Finca Vigìa. Qui scrisse, nel 1940 “Por quièn doblan las campanas”, Pablo Picasso aveva dipinto la sua “Guernica”, due capolavori di denuncia della guerra e dei suoi orrori: lo scrittore era stato corrispondente di guerra nelle file dell’esercito popolare spagnolo.
E sempre nell’isola caraibica scrisse “Il vecchio e il mare”, dove il vecchio Santiago diventa il simbolo di una esistenza, della lotta tra la vita e la morte, sempre incombente sull’umanità. Qui è il pescatore con il suo pescespada, in “Fiesta” è il matador con il toro, ovunque è l’uomo che si confronta con l’animale che si difende e che, purtroppo, soccombe.
Come si conviene alla gente di mare, anche Santiago era silenzioso: «Pensava sempre al mare come a “la mar” come lo chiamano in spagnolo quando lo amano. A volte coloro che l’amano ne parlano male, ma sempre come se si parlasse di una donna. Alcuni fra i pescatori più giovani…ne parlano come “el mer” al maschile. Ne parlano come di un rivale o di un luogo e perfino di un nemico. Ma il vecchio lo pensava sempre al femminile e come qualcosa che concedeva o rifiutava grandi favori e se faceva cose strane o malvagie era perché non poteva evitarle: “la luna lo fa reagire come una donna” pensò…».
A Palazzo Pinto, splendida cornice d’arte e cultura, Renaldo Fasanaro ha esposto oltre cinquanta oggetti, libri, opere pittoriche rappresentando un mondo distante da noi per spazio temporale e geografico, ma che, inspiegabilmente, sentiamo così vicino alla nostra cultura mediterranea e inconsciamente associamo ai pescatori di alici di Pioppi o a quelli del tonno di Cetara: gente di mare che ovunque ritrova come proprio il rito della pesca, ovunque usa i misurati gesti delle mani per rammagliare le proprie reti. Fu questa constatazione sulla spiaggia di San Vicente a riportare in Costiera Amalfitana Antonio Ferrigno, pittore dei brasiliani neri come il caffè che coltivavano.
“Viaggio inverso” quello dell’architetto Renaldo Fasanaro, cercando le architetture di pensiero, di scrittura di Ernest Hemingway, pienamente riuscito nella scia di quell’essenzialità che lo scrittore americano, Nobel nel 1954, aveva come cifra stilistica delle sue opere.
Ernest Hemingway era nato il 21 luglio 1899 ad Oak Park in Illinois, nella regione dei Grandi Laghi, ed era morto il 2 luglio 1961 nella tranquilla cittadina di Ketchum nell’Idaho. Sovviene alla mente quanto scriveva nel suo romanzo “Le nevi del Kilimangiaro”, la cui vetta occidentale viene chiamata “Casa di Dio” dal popolo Masai: «Giaceva immobile e la morte non era con lui. Doveva essere passata da un’altra strada».
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