Quest’anno dovrebbe iniziare la visita pastorale. Una rapida riflessione sull’esperienza vissuta in tutto il Novecento nelle parrocchie cilentane può risultare utile per comprendere le problematiche che emergeranno durante l’incontro tra il vescovo, i preti ed i fedeli. Nelle prossime settimane si proporrà all’attenzione dei lettori una breve analisi delle vicende più significative dopo il 1900 i cui effetti sono, per molti aspetti, ancora radicate nel vissuto quotidiano del 2020.
°°°
Una fase della vita della diocesi corrispondente al Novecento, secolo breve generatore dei processi che ancora caratterizzano le esperienze della chiesa locale, si può ritenere conclusa. Si sta sperimentando un altro tornante del quale occorre individuare portata, significato e valore di una vicenda che ha visto per il passato tanti sacerdoti svolgere una funzione profondamente adeguata al contesto per il quale si sono spesi nella speranza di operare una feconda inculturazione. Nell’articolazione ecclesiastica, portato di una millenaria espressione di fede semplice e di tante incrostazioni di religiosità popolare, si sono riflesse le attese, i disegni, le aspirazioni e l’impegno di uomini impegnati a trasformare la vocazione in vita vissuta, esaltata dal senso di chiesa e dall’obbedienza, a volte esperienza “kenotica”.
Il ministero della Parola agli estremi confini della latinità ecclesiastica e liturgica si confronta con una distanza misurabile non in chilometri, ma in differente mentalità e prassi devozionale per l’incidenza dell’antropologia sulle manifestazioni esteriori di fede. Relazioni “ad limina” e annotazioni dei visitatori apostolici inviati da Roma per verificare la consistenza di presunte irregolarità sembrerebbero confermare il giudizio negativo di questi ispettori. Costoro ha accreditato l’immagine di un clero refrattario a qualsiasi stimolo, ritenendo che oltre il Sele continui a vivere una popolazione paganeggiante e un presbiterio legato a canoni di vita poco rispondenti ai valori che dovrebbero testimoniare, un hic sunt leones che continua ad incidere anche sull’individuazione dei vescovi inviati nella diocesi. Invece, se si ha la pazienza di analizzare le vicende e leggere sine ira et studio i documenti è possibile ridimensionare ingenerosi stereotipi.
Il mutamento sociale in età moderna in quest’area è molto lento, a volte quasi impercettibile. I vuoti nel realizzare i dettami conciliari tridentini sono determinati anche dal paesaggio agrario, dalle strutture economiche, dalla statica stratificazione sociale. Quando nel XVIII anche nella zona si registra una prima accelerazione per il rifiorire dell’articolazione produttiva e il progressivo diffondersi di problematiche culturali dibattute a Napoli, capitale lontana ma influente, il grave ritardo della riforma ecclesiastica e la sostanziale sconfitta dei vescovi nella società religiosa locale determinano una pericolosa crisi, a stento superata alla fine della prima guerra mondiale, quando la civiltà contadina, anche se in una progressiva dipendenza dai più dinamici poli di sviluppo, finalmente pone riparo, anche se in modo rabberciato, ai postumi delle riforme napoleoniche e delle rivoluzioni istituzionali legate al Risorgimento.
L’impatto dei vescovi con la realtà diocesana, soprattutto se abituati alla rigida strutturazione ecclesiastica romana, non era facile. Del resto, accettata la nomina, venivano messi in guardia dalle Congregazioni romane sulla grave situazione pastorale. Per molti presuli vero assillo diventava l’isolamento culturale, la staticità sociale, l’incomunicabilità col clero, una diversa mentalità religiosa, le reazione del popolo che non comprendeva i modelli di vita proposti.
La storia dell’episcopato di mons. Zuccari alla fine del Settecento esemplifica questa profonda incomunicabilità, che determina incomprensione e contrasti causa di pericolose e dolorose lacerazione anche quando egli è convinto di operare per il bene dei fedeli e secondo coscienza. Pratica cristiana e restaurazione cattolica a fine Settecento sono ancora quelli descritti dai Sinodi del Seicento e dalle “Relationes ad Limina”. Mons. Zuccari, la cui proposta pastorale è intrisa di rigorismo e regolata dalla tradizione del Tomismo per rispondere agli interrogativi posti dagli Illuministi, è costretto a sostenere numerosi processi intentati da sacerdoti. La documentazione attesta il deleterio impatto nella vasta e complessa diocesi. Le fonti archivistiche sono prodighe di notizie sui sacerdoti colpevoli d’irregolarità canoniche, civili e penali, mentre tacciono su chi si prodiga nel lavoro apostolico, significativa dimostrazione di come le strutture centrali erano solite porsi nei confronti della realtà diocesana: a prevalere è la vigilanza sulla promozione delle precipue caratteristiche della chiesa locale.
La maggior parte del lavoro dei vescovi, attestata dai documenti si riduceva alla rigida verifica delle disposizioni emanate dalle Congregazioni romane senza porre attenzione alla realtà sociale e materiale, alle tradizioni e agli aneliti religiosi, alla storia e ai costumi. Continuava la sostanziale sfiducia nell’originalità e genuinità del cristianesimo espresso in diocesi per l’impellente necessità di centralizzare gli apparati. Tale opzione accentuava il grave ritardo della chiesa meridionale rispetto al modello imposto e, di conseguenza, la condanna ad una progressiva marginalità rispetto ai poli europei di sviluppo. Accentramento canonico-burocratico e riorganizzazione del sistema piramidale che privilegia i vertici della gerarchia furono la risposta della chiesa romana. La valorizzazione dell’istituto parrocchiale, così come il Concilio di Trento l’aveva concepito, è il tramite perché il sistema accentrato proiettato in ogni diocesi potesse coinvolgere, aggregare, ordinare, catechizzare il popolo. La parrocchia trasmetteva valori, devozioni, liturgie che sovente si sovrapponevano al contesto autoctono. L’imposizione di una uniforme prassi cultuale coinvolgeva anche le manifestazioni devozionali per porre riparo a rituali centrifughi. Nel tentare di realizzare questo programma i vescovi subivano i contraccolpi di un ambiente refrattario a novità percepite come estranee e distanti. L’azione di mons. Zuccari, ad esempio, a molti apparve imposta dall’alto in un ambiente in cui vescovo, curia, sinodi, visite pastorali erano considerati espressione di un apparato esterno, lontano, non i vertici di una società che attendeva risposte adeguate alle proprie esigenze religiose.
Nella ricettizia era determinante la partecipazione e il controllo del patrimonio comune; molti cadetti di famiglie di nobiltà di toga, della borghesia e di contadini relativamente agiati e desiderosi di ascesa sociale abbracciavano lo stato ecclesiastico per questi motivi.Si confrontavano due mondi, una diversa e costante visione della chiesa e dell’attività parrocchiale: il vescovo non comprendeva le cause profonde di questo stato di cose; forte delle prescrizioni tridentine e delle decretali papali procedeva decisamente nel suo tentativo di riforma. Ecclesiastici e ceti egemoni rispondevano con diffidenza, astio, odio, coinvolgendo i ceti popolari, che consideravano la nuova pastorale un’insidia per la propria religiosità, frutto di una cultura magico-mediterranea. A giudicare dai risultati del quarto di secolo di episcopato di Zuccari, formatosi a Roma e assertore della riforma tridentina, la chiesa cilentana era refrattaria a imposizioni di vertice poco attente alle esigenze della sua storia e del suo portato culturale. La società accettò superficialmente l’opera di restaurazione del XVII e del XVIII secolo; rimase legata alla propria religiosità, più emotiva che teologica, ad una vita cristiana autoctona, che non condivideva la rigida disciplina sancita dai canoni, pronta a infiammarsi emotivamente per le devozioni, ma poco sensibile alla catechesi. Il clero era l’espressione più compiuta di questa realtà socio-culturale. In una diocesi in cui il seminario, se non per breve periodo, non aveva mai funzionato secondo le indicazioni conciliari, reclutamento e formazione dei sacerdoti venivano demandati ai collegi clericali delle ricettizie, sensibili più ai problemi beneficiali che alla pastorale.