ORESTE MOTTOLA [email protected] Ecco come il soldato Carmine Iorio diventò il beduino Yusuf el Muslim. Da fante a capo dei Senussi. Non sapremo mai se Gheddafi conosce la storia di Carmine Iorio, il Lawrence d’Arabia all’incontrario. L’avventura dell’italiano che, dal 1917 al 1928, si fece arabo e diventò, in Libia, il capo della rivolta dei Senussi contro il colonialismo nostrano è veramente romanzesca o cinematografica. La vicenda è stata recentemente portata alla luce da Gian Antonio Stella, una delle maggiori firme del giornalismo italiano che vi ha dedicato un’intera pagina sul prestigioso, e diffuso, “Corriere della Sera”. Mai nessun altro compaesano ha avuto un simile eco. Carmine Iorio era un altavillese. Fin da bambino aveva fatto il bufalaro ed il cavallaro. Poi si arruolò. La sorte volle che invece di andarsi a immolare sul Carso nel 1917, come accadeva a tanti suoi coetanei, lui si trovasse in Cirenaica a combattere contro gli antenati del colonnello Gheddafi. Le cronache scovate da Stella dicono che passò dall’altra parte per una rissa seguita ad una colossale bevuta e per salvare la pelle visto che era stata decisa la sua impiccagione. Nella galleria dei personaggi leggendari di questo paese che pure n’offre più di uno (da Ulderico Buonafine a Francesco Mottola) l’avventura del fante che si trasforma in Yusuf el Muslim, sposa un’araba e, evitando sempre di sparare direttamente sugli ormai ex connazionali, anima per dieci anni la resistenza libica davvero ci sarebbe da fare un film. Qualche accenno alla storia l’avevano già fatto Rosario Messone e Giuseppe Galardi nel loro prezioso volume di storia altavillese. Poche, e sommarie righe. Nel paese, poi, non c’era interesse a ricordare l’avventura di Iorio. Più di una volta, ma a mezza bocca, quella storia l’ho sentita raccontare da mio nonno Rosario, nato nel 1911, che in Cirenaica trascorse gran parte della sua gioventù (dal 1935 al 1943) e che reputava quel che aveva fatto Iorio una gravissima vergogna per il paese. E d’accordo con lui erano i tanti che i fatti d’arme d’Africa avevano vissuto direttamente. Ora la storia di Carmine Iorio torna di nuovo a galla. Eroe o traditore? Nel 2004 è difficile incasellarlo in una delle due categorie. Io propongo di ricordarlo semplicemente per questa sua vita controcorrente. Così lo racconta Gian Antonio Stella che ha avuto il merito di aver recuperato un vecchio scritto di Francesco Maratea stampato su “La settimana Incom”: «Tenente Rossi, statt’accuorto! E vuie pure, marescià! Sergente: fetiente!». A sentire gli insulti che salivano dalle file dei beduini, i soldati che quella mattina di gennaio del 1917 si erano avventurati sulle alture dietro Bengasi restarono stupefatti: che ci faceva tra i ribelli quel traditore italiano dallo spiccato accento cilentano?”. La storia, come sempre, parte da un evento casuale: “Tutto era cominciato il 13 luglio dell’anno precedente a Tukrah, tra Bengasi e l’antica Tolemaide, in Cirenaica. C’era stata festa, i militari del nostro distaccamento avevano alzato il gomito e più di tutti l’aveva alzato il fante Carmine Iorio. Aveva 24 anni, era un ragazzo «non alto, magro, spericolato», veniva da Altavilla Silentina, si era guadagnato da vivere fin da bambino come bufalaro e cavallaro, aveva sposato una compaesana di nome Lorenzina Di Poto, era già sotto le armi da quattro anni ed evidentemente non ne poteva più. Scatenata una rissa, era stato dunque scaraventato a smaltire la sbornia nella baracca che fungeva da prigione. L’aveva già assaggiata, Carmine, quella punizione”. E forse sarebbe finita ancora con una dormita e una ramanzina, se quella notte – nota Francesco Maratea- non avesse fatto un caldo spaventoso. Stravolto dal mal di testa, il fante, incapace di trovar requie nel sonno, si era infine alzato, aveva dato una spallata alla porta e se n’era andato vagabondando nella notte fino a stramazzare, abbattuto dalla ciucca, sotto le palme che svettavano su una pista. Dove un’ora dopo sarebbe stato trovato, impacchettato e portato via da una carovana guidata nientemeno che dal più tenace nemico che l’Italia aveva incontrato laggiù in Libia, Omar El Muktar, il capo dei Senussi, la confraternita di beduini che si batteva per un impero teocratico islamico e aveva opposto una durissima resistenza al colonialismo italiano. “Al risveglio, legato di traverso su un cammello, il soldato Iorio aveva sbarrato gli occhi: cosa diavolo gli era successo? Non avrebbe avuto risposta per giorni e giorni, finché, dopo una marcia estenuante fino ad Ajdabiya, la base di El Muktar, non gli si era parato davanti un vecchietto che, in un italiano stentato, gli aveva comunicato che il giorno dopo sarebbe stato impiccato. Era ormai rassegnato al cappio quando Mohammed Idris e suo fratello Saied el Redà, i massimi capi davanti ai quali l’avevano trascinato, gli chiesero che cosa significasse quel piccolo fucile ricamato sulla manica. «Sono un fuciliere scelto», aveva risposto. Il giorno dopo era già sotto il capestro, tra le urla e gli sputi di una folla inferocita, quando era arrivato l’ordine di sospendere l’esecuzione. El Redà voleva un piacere: se aveva davvero una buona mira, doveva ammazzargli due nemici personali. Iorio non ci aveva pensato due volte: «Accetto». Portato sul posto da una guida, aveva scrupolosamente eseguito con successo la prima e poi la seconda delle commissioni. Quindi, buttata via ogni speranza di tornare tra gli italiani e guadagnata la fiducia del senusso, si era rassegnato di buon cuore a restare ai suoi ordini. Tanto più che El Redà gli aveva chiesto addirittura, in cambio di generosissime ricompense, di fare da istruttore ai suoi figli. Quel mattino di gennaio del 1917 in cui urlò «fetenti!» ai suoi ex commilitoni, il soldato Iorio era stato chiamato alla prova del fuoco. Si era fatto crescere la barba, aveva preso a vestirsi e a mangiare come un beduino, si era sorprendentemente impadronito in pochi mesi della lingua, aveva assunto il nome di Yusuf el Muslim. Conversione sincera? A rilegger Maratea, c’è da dubitarne: «In realtà, egli si convertì con un intimo compromesso: si prostrava in pubblico dinanzi ad Allah e ai muezzin, poi ne chiedeva perdono alla Madonna del Carmine, a S. Antonio, a San Egidio, a tutti i santi patroni della sua infanzia». Fatto sta che, per undici anni, « Carmine el Muslim» restò lì, a combattere dalla parte dei Senussi nella sanguinosa resistenza contro l’esercito di Vittorio Emanuele III. Dimentico della moglie Lorenzina, sposò tra mille onori un’araba. E poi un’altra ancora, la bella Teber ben Mussa, che gli avrebbe dato due figli, Mohammed e Aescia. Dimostrata mille volte la sua dedizione alla causa dei ribelli, ne divenne un ufficiale. Fino a raggiungere i vertici: «Subordinato solo ai discendenti del Senusso, Yusuf era il comandante effettivo della rivolta e combatté gli italiani con ardimento implacabile, rispettando solo l’ultimo precetto di non sparare mai con le sue mani contro quelli del suo sangue». Un dettaglio che non gli impedì di organizzare e guidare i suoi uomini nell’agguato in cui cadde il capitano Tilgher o in altre decine di scorribande contro le truppe dei colonnelli Piatti e Lorenzini. Finché, caduti uno dietro l’altro i principali leader della guerriglia, si ritrovò sempre più solo. La svolta arrivò nel 1927, quando, durante un rastrellamento, restò casualmente nelle mani italiane la bella Teber. Carmine impazzì di dolore. E mentre anche el Redà si arrendeva e accettava di venire confinato a Piazza Armerina, lui diventò ancora più irriducibile. Per mesi, mentre morti, catture e abbandoni assottigliavano i guerriglieri ai suoi ordini da un migliaio a poche decine, dedicò ogni energia alla ricerca della moglie prigioniera. E la cosa divenne una leggenda al punto che tra i nostri soldati si diffuse addirittura una canzoncina: «Ce sta nu’ sergente / faceva l’attindente / a madama Fatimà / Prigioniera beduina / dalla sera alla matina». Nell’autunno del 1928, quando finalmente individuò la prigione, gli erano ormai rimasti solo tre fedelissimi. Arrivò a Gigherra il 16 novembre 1928, seppellì con i suoi compagni i fucili in una buca e si intrufolò tra i nomadi che prendevano l’acqua da un pozzo. Fece la domanda sbagliata al libico sbagliato, fu riconosciuto, tentò inutilmente di scappare. Catturato, venne portato con gli altri al comando di Gialo, davanti al colonnello Pietro Maletti che avrebbe fatto poi diffondere una ricostruzione nella quale il traditore, davanti alla minaccia di essere frustato da un ascaro detto Ivan il Terribile, era vigliaccamente scoppiato in lacrime prostrandosi in ginocchio: «Signor colonnello, che vulite da me, saccio bene quello che sono, m’aggio data la condanna col core mio! V’imploro di non farmi frustare, io sono italiano e non arabo, gli arabi resistono alle curbasciate, noi non possiamo resistere!». Vero? Falso? Mah… Certo è che, dopo essere stato un ubriacone, un disertore, un assassino su commissione e un traditore così disprezzato dalle nostre autorità che al processo fu interrogato in arabo da un interprete, il soldato Iorio andò incontro alla morte con dignità. Passata la notte a scrivere alla madre e a pregare in ginocchio l’immagine della Madonna del Carmine, davanti al plotone d’esecuzione rifiutò i sacramenti. «Perché?», gli domandò il colonnello. E lui, chiedendo l’assistenza di un cadì, rispose: «I miei due figli sono nelle mani dei Senussi: se morissi da cristiano, sarebbero figli di un traditore. Se muoio da musulmano saranno figli di un eroe».
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