Il caldo sole della primavera batte sulle colline allo scialo della fioritura. E poderi e strada scivolano ad approdo di pianura dall’anfiteatro delle montagne: la dentatura oblunga del Soprano, il cono rovesciato del Sottano, Il Vesole arcuato sullo sfondo a far da quinta. Di fronte il mare greco dei miti e della storia a riecheggiare nel riso da risacca la gloria della potente Poseidonia. La strada che, in pendio ardito, ferisce frutteti ed uliveti, fu, un tempo, carrareccia frequentata all’alba e all’imbrunire da salariati a sudata conquista di lavoro ai latifondi della piana nella perenne riconversione delle colture: grano, cotone e tabacco e, via via, in sintonia con le esigenze del mercato, pomodori, fragole e carciofi. Pazzano registra, così, la povera epopea diseredati a guerra di sopravvivenza. In cima Capaccio, assorta nella luce, si adagia nel breve pianoro nel colorato arabesco di case e chiese con il suo carico prezioso di storia nobile. Oggi compatta nell’unicum della sua struttura urbanistica fu un tempo disseminata in casali a dominio di arti e giardini: Monticello, Santoliveto, Casecapolla, Lauro, come testimonia un vecchio canto popolare: ‘Capaccio bello, fatto a quattro pizzi.’ raccolto con amore e passione di figlio e rigore di studioso da Vincenzo Rubini.
Gli storici, che hanno familiarità con gli archivi polverosi, sostengono che fu proprio Monticello il primo nucleo abitato all’indomani della migrazione forzata verso l’interno di quanti riuscirono a sopravvivere alla crudele rappresaglia di Federico II in seguito alla Congiura dei Baroni. Lo scheletro del castello sullo sperone di roccia del Calpazio è quel che resta di un evento che rivoluzionò la geografia politica del territorio. E Monticello scopre con ospitale disinvoltura le sue origini a chi sappia leggere sull’acciottolato sconnesso di strada e vicoli, sui portali di pietra dei palazzi gentilizi, nella covata di case linde all’abbraccio di pergolati nella minuscola vallata ubriaca di profumi di macchia mediterranea. Sono venuto fin qui alle radici della storia di Capaccio in una splendida giornata di sole. Mi feriscono di dolcezza gli occhi luminosi di una ragazza da un quadrato di finestra tra vasi di gerani in fiore e l’accenno tenero di saluto di una vecchia alle prese con tovaglia da ricamo sulle scale di casa a margine di strada. Un bastardino randagio mi annusa, intelligente e curioso, e scodinzola festoso. Poche centinaia di metri in salita e la Fondana dei Delfini è arredo d’arte, sottovalutata, tra un vecchio frantoio a dominio di vallata e dei palazzi Stabile, D’Alessio e Tanza con i segni di antica nobiltà e nuovo amore per orgoglio di appartenenza nel maestoso portale con la fortificazione del muro di cinta a tutela di giardino segreto. Poco più in su la Parrocchiale di S.Pietro, che fu cattedrale di diocesi estesa e potente, testimonia di vescovi santi e colti, spesso, e rozzi e spietati, qualche volta, come quel monsignor Bonito, che, per ragioni di stato, nei primi decenni del ‘600 fece bruciare nella piazza di Cuccaro sacre icone libri di preghiera dei monaci italo-greci. E quel falò fu ferita irreparabile alla memoria storica e alla cultura di tutto il Cilento. L’orologio della Torre Campanaria ha scandito gioie e dolori della comunità ed ha registrato passioni politiche nel vecchio municipio a custodia ed arredo della piazza. A pochi metri la vecchia casa natale di Costabile Carducci reclama onore e dignità di museo per l’eroe eponimo della Rivoluzione Cilentana del ’48. Le sue spoglie riposano in una piccola chiesa di mare ad Acquafredda di Maratea in attesa di un degno monumento sepolcrale nella terra di origine. Il Tempone è una balconata verde su vallata e pianura, passeggiata lenta e sosta di riposo per quanti, a tutela di orgoglio di identità, sono rimasti nel vecchio centro, ad argine della migrazione biblica verso il mare, e guardano con disincanto, sempre, con disappunto, qualche volta, il meticciato della Piana con i parvenus dai portafogli gonfi di affari nell’agricoltura e nel turismo. A me accende nostalgia di festa di Sant’Antonio con banda, luminarie e fuochi d’artificio e lo sbafo di torrone, nocciolate e zucchero filato alle bancarelle colorate a conclusione della devozionale tredicina alla bella chiesa del convento che, bambino, mi ferì di stupore con l’ampio chiostro a giocare a girotondo sul pozzo di pietra. La festa anticipava la “stagione” con gli uomini a conquista della paglia bianca e le donne a caccia di sblusate leggere sulle bancarelle della fiera accorsata. Più su Palumbo registrò le fasi evolutive di quelli della mia generazione nei clic lampeggianti e svaporanti delle vecchie macchine fotografie. La strada del vecchio centro si apre a ridosso della chiesa e prosegue zig-zagante tra bei palazzi e minuscoli giardini recintati, testimoni di nobiltà di censo e di casato: Tanza, Rubini, Granato, Bellelli. Ed evoca, nell’accezione latina del termine, pagine belle di gesta di esponenti di famiglie prestigiose impegnati con successo nelle attività professionali e nella politica, ma anche di laceranti risse da invidie e dispetti reciproci.
In meno di 500 metri di strada è concentra una bella fetta di storia del Cilento proprio per il ruolo che Capaccio recitò come centro di diocesi e di principato su di un vasto territorio. E nella mia passeggiata “ra lu Tempone fi’ a lo Capostrata”, come consiglia il vecchio canto popolare, a viaggio a ritroso di memoria, m’è compagna solo l’eco dei passai lenti sull’asfalto e/o sull’acciottolato e fa ressa alle porta del cuore e della mente un esercito di ombre che reclamano vita: principi e baroni, vescovi e padri guardiani, nobili reazionari ed eroi rivoluzionari, professionisti ed artigiani e i mille sudati mestieri di un popolo senza lavoro e senza terra fino all’assalto dei latifondi e la conseguente riforma agraria che, nello spazio di un decennio, rivoluzionò costume, economia e vita di un territorio più di quanto non l’avessero fatto tutti i secoli precedenti messi assieme.