Una sintetica rievocazione delle vicende più salienti relative alla storia del seminario diocesano in età moderna e fino all’inizio del Novecento induce a ritenere che nella diocesi di Capaccio e, in seguito, di Vallo soltanto in parte si riesce a porre riparo ad alcune disfunzioni nel provvedere alla selezione dei candidati al sacerdozio. Per anni è stato difficile trapiantare il modello di prete tridentino nel territorio cilentano sia perché l’istituto non ha funzionato regolarmente sia perché il chierico, che dovrebbe formarsi secondo questo tipo di spiritualità, non trova adeguato supporto nella parrocchia. Ai vescovi risulta difficile favorire lo sviluppo e l’affermazione del seminario come luogo idoneo per selezionare gli aspiranti al sacerdozio. Per loro si rivela veramente difficile sfaldare l’impalatura giuridica della ricettizia, un sistema di organizzazione parrocchiale che, nei fatti, si oppone al nuovo modello di sacerdozio. L’invito a sostenere il seminario cade nel vuoto, nonostante l’istituto fondato da Mons. Verallo sia stato oggetto dell’attenzione dei sinodi diocesani. Mons. De Matta auspica il buon funzionamento in un intero capitolo, potendo l’accento sull’obbligatorietà della frequenza per tutti i giovani della diocesi. Mons. Brancaccio riconferma i decreti del predecessore ed istituisce 20 piazze franche per alunni meritevoli e di pii costumi da scegliere nell’ambito dei 20 circuli in cui divide le parrocchie. Egli impartisce disposizioni ai parroci, ai superiori, ai professori per la compilazione scrupolosa del processetto d’informo, rendendo obbligatorie le certificazioni per eliminare precedenti soprusi e più severo l’accertamento della consistenza patrimoniale dell’ordinando. Mons. Carafa enumera con minuzia in 66 punti criteri pedagogici, regolamenti e didattica da seguire, mediandoli da quelli in vigore nei collegi dell’Urbe, soprattutto nel seminario romano. Egli fissa orario ed attività che, nella sostanza, rimangono in vigore fino alla fine del XIX secolo. Dalla sveglia alla compieta, la vita viene ritmata in moda da temprare chierici radicati in una società arretrata ed isolata, prona ai ritmi naturali e con tutte le caratteristiche dell’eccitabilità emotiva e dell’irascibilità contadine, poco disposta ad accettare la disciplina interiore, indispensabile per sacerdoti che avrebbero dovuto educare le masse ed assicurare il loro consenso alla riforma cattolica. Si tratta, tuttavia, di un programma solo esteriore. Le motivazioni spirituali della scelta sacerdotale rimangono valide per il singolo, non sono concretamente sostenute ed imposte alla società che, non comprendendo questo modello di operatività pastorale, nei momenti di maggiore bisogno di aiuto spirituale e di conforto religioso continua a rivolgersi al monaco e non al sacerdote secolare. Probabilmente è questa una delle difficoltà maggiori nelle quale s’imbatte il seminario, che nella diocesi di Capaccio fino al XIX secolo non funziona in modo sistematico formando tutti i chierici della chiesa locale. Alla fine del Settecento Mons. Zuccari non coglie i motivi della sostanziale sconfitta del movimento riformatore da lui ardentemente sostenuto. Egli intravede nel seminario uno dei pilastri della riforma del clero, dedicandovi tutto il capitolo XIV del suo Sinodo. L’austero programma di vita, l’impegno culturale, la sana amministrazione naufragano nonostante gli sforzi; il vescovo non può sostenere da solo l’onere di tanto lavoro. Inoltre, la sostanziale mancanza d’indipendenza economica e l’essere soggetto alla rete beneficiale della ricettizia, lo condizionano continuamente. Il progetto di riforma è affidato più alla volontà del presule, che al costante e puntuale funzionamento della struttura diocesana. Mons. Zuccari, convinto che la riforma del clero e del seminario costituiscano due momenti di una medesima proposta pastorale, si adopera per un radicale cambiamento di mentalità dei sacerdoti diocesani, consapevole che la loro azione sia determinante per riformare catechesi e culto, e favorire l’incontro tra popolo ed esigenze di governo ecclesiastico. Nel correggere gli errori secondo il modello già sperimentato dai redentoristi di S. Alfonso, nel suo sinodo egli delineò i contenuti di fondo di un progetto che, sovente, si rivela una mera ripetizione di formule e programmi inutilmente perseguiti da Verallo, De Matta, Brancaccio, Carafa. Tra centralismo romano e spagnolo, e costanti contrasti con la feudalità, i vescovi, impegnati ad instaurare una prassi burocratico-fiscale, accentuano le funzioni di vertice della loro presenza contribuendo al radicamento della tendenza al formalismo religioso. La complessa situazione è aggravata dall’eccessivo numero di ecclesiastici; risulta difficile mantenere la disciplina di un clero ingovernabile sia durante gli anni di formazione che una volta ordinato. Gli echi della rivoluzione francese e le concitate esperienze del periodo napoleonico determinano una radicale frattura in un’area ancora ai margini del processo storico che infiamma l’Europa. Nella prospettiva dei tempi lunghi a trarne vantaggio è anche la Chiesa, perché riesce a porre rimedio a moltissimi problemi che hanno condizionato la sua efficacia pastorale. Aiutata dallo Stato, essa ridimensiona il particolarismo religioso, che nella zona per secoli ha caratterizzato la pratica cristiana. L’autorità civile demanda ai sacerdoti compiti di pubblico funzionario del culto e di animatore delle attività sociali. I parroci sono sollecitati a prodigarsi perché il popolo accetti la vaccinazione, favorisca l’igiene e la carità pubblica in occasione di calamità; tuttavia, la necessità di dovere ricordare al clero tali doveri è una conferma della disfunzioni nelle parrocchie, incapaci di funzionare secondo il modello delineato, non solo per mancanza di preti preparati, ma anche perché hanno perduto il supporto d’istituzioni, come le congreghe, nella zona caratteristica espressione della socialità religiosa. Nel clero locale si produce una radicale frattura tra sacerdoti progressisti ed illuminati, che seguono con interesse l’ammodernamento delle strutture pubbliche dello Stato e da allora, impossibilitati a manifestare pubblicamente le loro idee, propensi ad infoltire le file della carboneria e della massoneria, ed il resto degli ecclesiastici regnicoli, in genere espressione dei ceti più poveri, condizionati dal miraggio della congrua e perciò, soggetti alle direttive del vescovo e delle autorità civili. Nella controrivoluzione antigiacobina del 1799 si fondono e si confondono contraddittorie e convulse istanze sociali, componenti della religiosità popolare, il tradizionale ricorso alla protezione regia e primordiali sentimenti di giustizia. In tal modo il sanfedismo alimenta la guerra sociale, un’esplosione di odi e di rancori a lungo repressi che, in assenza di un programma e di una bandiera unificante, fa propri quelli del cardinale Ruffo. In questo frangente l’episcopato sembra celebrare la propria vittoria sulla rivoluzione repubblicana e sull’irreligiosità moderna, ma contemporaneamente mostra al re e all’apparato statale le grandi possibilità offerte dalla chiesa per conservare il potere e il regno. La religione, organizzata e gestita da un apparato in forte processo di ruralizzazione, diventa mezzo privilegiato di pressione, un instrumentum regni in contrasto con gli aneliti dell’autentica spiritualità cristiana. Un clero disciplinato per il governo costituisce la premessa per controllare la religione, essenziale per presa sul popolo. Ai vescovi si richiede con severità la residenza; mentre i preti devono formarsi nei seminari; da qui la disponibilità a provvedere al loro restauro. Il ministro Ricciardi sollecita, ad esempio, che i tre seminari-collegi della diocesi si fondino in un unico istituto nel quale provvedere anche alla tanto necessaria educazione elementare e media dei giovani rampolli della borghesia; inoltre, si utilizza il capillare reticolo parrocchiale per provvedere alle mansioni sociali dello Stato. Da qui l’attenzione anche alle condizioni materiali, stabilendo che la mensa vescovile disponga di una rendita netta di almeno sei mila lire ed i parroci della congrua. Per i sacerdoti ora risulta obbligatorio formarsi in seminario, ma la vita di questo istituto non è delle più serene: problemi logistici, mancanza di personale, carenza di rendite continuano a creare preoccupazioni al vescovo. Nella nuova situazione il presule è costretto a chiedere aiuto e collaborazione al governo, prodigo di concessioni, che si rivelano un ulteriore condizionamento per l’istituto. Nella diocesi, dove la scuola pubblica è sempre carente, il seminario si trasforma in un’opportunità di studio per ragazzi e giovani borghesi; sovente un ginnasio-liceo frequentato più da convittori esterni che da chierici. Le molteplici e penose vicende che hanno contrassegnato il seminario in età moderna perdurano ancora per tutto il XIX secolo. All’inizio dell’Ottocento, dopo la tragica parentesi dei fatti collegati alla rivoluzione del 1799, mons. Speranza dedica particolare attenzione al seminario per fornire solide basi culturali ai suoi chierici e superare la prassi consolidata del frequentare maestri di grammatica ed insegnanti nei paesi di residenza. Egli si preoccupa di rivedere la ratio studio rum, precisando l’importanza degli studi di grammatica, di lingua latina e di letteratura, ma soprattutto quelli di dogmatica e di apologia della religione cristiana. Una cura particolare dedica al seminario appena aperto a Novi nel soppresso monastero dei Celestini. E’ il terzo funzionate in diocesi, ma non ha risolto i problemi di formazione dei chierici. Ancora nel 1831 mons. Speranza riferisce a Roma che i problemi persistono perché risulta difficile amministrare tre seminari, dove vivono 150 giovani. I beni dell’istituto sono stati venduti dal regio fisco per circa 12 mila ducati, perciò è impossibile mantenere gli alunni poveri. Il successore, mons. Barone, decide di aprire a Capaccio, dove ha deciso di risiedere, un altro istituto. Nella relazione a Roma egli riferisce che, oltre al seminario, dispone di altri tre collegi dove studiano circa 200 chierici, ma si propone di ridurre i quattro istituti ad uno per garantirne l’efficienza. Tra le sue sollecitudini, un posto particolare occupa il seminario, consapevole che sia quello di Diano, che quello di Novi dal 1835 si trovano in precarie condizioni finanziarie e spirituali avendo assunto in prevalenza la funzione di collegi per la formazione dei figli della borghesia della zona. Con decisione pretende che il seminario sia aperto a Capaccio in modo da potere dedicarvi una diretta vigilanza e disporre di chierici disciplinati, colti e pii, un prerequisito a suo giudizio per l’ammissione agli ordini, suscitando la reazione di alcuni genitori. Il seminario di Novi ha registrato un certo impulso, dopo la sua istituzione per volontà di mons. Speranza, perché unico istituto d’istruzione media e superiore nel Distretto di Vallo. Mons. Barone continua a curarne l’organizzazione; così nel 1841 arriva ad ospitare 84 alunni. Le domande d’iscrizione sono molte ed il presule, per sistemare convenientemente i suoi 230 seminaristi, chiede al Ministero degli Affari Ecclesiastici l’assegnazione alla diocesi per uso di seminario e di convitto del convento dei Carmelitani in Mercato Cilento perché, come scrive nel gennaio del 1841, altri cento alunni non hanno trovato posto nei tre seminari “ per causa dell’intemperie, e dell’inclemenza dell’aria”; molti sono costretti a frequentare “le scuole private senza riportarne veruna cognizione”. Il grande sforzo di organizzazione fatto da mons. Barone e dai suoi collaboratori non ottiene i frutti sperati. Nel 1846 mons. Fistilli, nel reiterare l’importanza dei seminari e dei collegi diocesani, che languiscono per lo scarso numero di convittori, stabilisce che tutti i chierici devono frequentare il seminario recandosi in quello ubicato nel proprio dipartimento; chi non ottempera a questa disposizione non può essere ordinato. Inoltre, anche per l’esperienza personale prima di essere nominato vescovo di Capaccio, egli ridisegna il piano di studi, stabilendo nei seminari le cattedre di teologia dogmatica e morale, di filosofia, di matematica con l’intero corso sintetico ed analitico, di belle lettere con poesia latina ed italiana e tutte le classi della lingua latina, greca, italiana e calligrafia, stabilendo per settembre, con la chiusura del seminario, pubblici esami. Il successore, mons. Gregorio Fistilli, deve fronteggiare una ulteriore crisi. Ma le vicende della diocesi fino al suo smembramento fanno fallire il progetto di razionalizzazione dell’amministrazione e gestione del seminario. Il seminario di Novi rimane l’unico centro di formazione sacerdotale nella diocesi di Capaccio- Vallo. Nel 1852 sono presenti 64 alunni. Nell’anno scolastico 1853-54 a frequentare sono in 111. I novizi sono passati a 65 grazie al maggiore controllo che si riesce ad esercitare. L’anno successivo con 115 alunni, dei quali 69 novizi e 28 accoliti. Alle spese si fa fronte con la rendita delle badie, a questo scopo assegnate al seminario da Pio IX. Con queste entrate si compensa il deficit che si sarebbe determinato calcolando le sole rette.
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