“Quello che è cominciato sabato 11 maggio 2019 non è il Giro d’Italia. Il punto più meridionale del tragitto rosa è San Giovanni Rotondo. Mezza Italia e metà degli Italiani sono tagliati fuori dalla competizione nazional-popolare per antonomasia. Eppure paghiamo le tasse come i connazionali dell’Italia centro-settentrionale. E’ scandaloso che un evento che riceve importanti contributi pubblici (appunto le tasse di tutti gli italiani) determini una così palese discriminazione. Con molto dispiacere non lo guarderò. E spero che i centro meridionali facciano lo stesso. Il crollo di ascolti ed attenzione potrebbe determinare per il futuro scelte diverse.”
Questo grido di dolore postato da Peppe Iannicelli sulla sua pagina FB mi ha colpito perché fa rientrare dalla porta di servizio un problema che in questo momento elettorale è uscita dalla porta principale: gli Italiani sono tutti uguali come la Costituzione repubblicana garantisce?
Credo che la questione del Giro d’Italia sia solo un’anteprima di cosa succederà in termini di differenziazioni che andranno a colpire nel vivo i servizi alle persone che vivono nelle regioni più povere con l’autonomia regionale spinta che oggi è stata messa in sordina ma che sarà riproposta con determinazione il giorno dopo le elezioni.
Pertanto, non credo che il mancato passaggio della “carovana” di pedalatori che attraversa di gran carriera le nostre strade, passa per i nostri centri abitati, si arrampica sulle nostre montagne, alloggia (a spese nostre) nei nostri hotel e impone condizioni capestro che drenano risorse dai capitoli destinati alla promozione turistica e alla promozione sportiva per le società dilettantistiche, sarà vissuto come un trauma dalla gran parte dei residenti nelle regioni escluse dal tracciato.
Penso invece che dovremmo cominciare a preoccupare del fatto che con il tipo di ripartizione delle risorse (entrate dello stato), in base al principio previsto dal referendum “vinto” da proponenti governatori e consigli regionali del Nord (Lombardia, Veneto e Piemonte con l’aggiunta dell’Emilia Romagna), lasceranno con il cerino in mano proprio le regioni che “rendono” allo stato meno di quello che ricevono.
La proposta referendaria delle tre “ancelle” nordiste prevede il trasferimento delle competenze di alle regioni con le relative risorse necessarie alla loro gestione.
Solo dopo aver soddisfatto tutte le esigenze delle “terre alte” i residui potranno essere lasciati a disposizione della fiscalità generale e attribuite al riparto tra le altre regioni che, in caso di in capienza dovranno aumentare le entrare o ridurre i servizi ai propri cittadini.
C’è un manifesto lanciato dal Comitato per la Bellezza e dall’Associazione Bianchi Bandinelli contro l’intesa fra il governo e le prime tre regioni, Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, per trasferire ad esse, in base al Titolo V della Costituzione, nuove e maggiori competenze oggi dello Stato e sottoscritti da centotrenta intellettuali fra storici dell’arte, archeologi, urbanisti, scrittori e saggisti, con il quale viene lanciato l’appello:
“Venerdì 15 febbraio l’Unità d’Italia comincia a sgretolarsi”, si legge nell’appello che parla di “atto costituzionale che assesta un colpo mortale allo Stato unitario, alla Repubblica voluta nel 1946 dal popolo italiano, destinato a portare al massimo il caos politico-amministrativo del Paese anche nei suoi rapporti con l’UE e col resto del mondo. Reso possibile dalla sussistenza del disastroso Titolo V della Costituzione voluto dal centrosinistra nel 2001 e purtroppo mai riformato”.
Nei firmatari dell’appello (tra i quali spiccano i nomi di Adriano La Regina, Tomaso Montanari, Fulco Pratesi, Pier Luigi Cervellati, Vittorio Emiliani, Pancho Pardi, Fausto Zevi e molti altri) suscita “grandissima preoccupazione il fatto che fra le prime competenze rivendicate ‘in esclusiva’ vi sono Ambiente, Beni Culturali, Urbanistica (ma non solo).Grandissima preoccupazione giustificata dai fatti, cioè dalla pessima attuazione o dalla inattuazione delle deleghe già ricevute in materia dalle Regioni a statuto ordinario quarant’anni fa (per non parlare della Regione Siciliana a statuto speciale, dove gli abusi non si contano). Per esempio, la sostanziale renitenza o addirittura il pratico rifiuto della stragrande maggioranza delle regioni di attuare leggi dello Stato sul Paesaggio come la legge Galasso del 1985 sui piani paesaggistici, ribadito ostinatamente nei confronti del Codice per il Paesaggio del 2008 con appena 3 piani co-pianificati e approvati, spesso fra furibonde polemiche locali”.
Ciò che preoccupa i firmatari dell’appello è che alle tre regioni che “pretendono mano libera su ambiente, paesaggio, beni culturali”, si possano aggiungere altre Regioni che “chiedono già di avere più autonomia e più competenze esclusive. La Campania – regione record dell’abusivismo – le vuole per ambiente, ecosistema, paesaggio. La Regione Lazio, a quanto si apprende, le chiede – pur avendo al suo interno la Capitale del Paese – anche per i rapporti internazionali e con la UE. La Liguria le esige per le grandi reti di trasporto e di navigazione (assolutamente impensabili anche nella federale Germania)”.
“Tale disegno è assolutamente, drammaticamente inaccettabile”, dicono i firmatari dell’appello e concludono: “Eleviamo la più forte e argomentata protesta contro una operazione che smantella lo stesso Stato regionale, dissolve un governo centrale già debole che invece negli Stati regionali è forte e deciso. Un vento di follia sta investendo il Paese, quanto resta dello Stato viene sbriciolato a favore di Regioni che, in quasi mezzo secolo, hanno spesso dimostrato inerzia, incapacità, opacità a danno della comunità, della Nazione.
Mai appello potrebbe essere più eloquente per far levare alto e forte il “grido di dolore” di ogni animo che ha ancora a cuore il destino, dell’Italia, la serena convivenza democratica e la riaffermazione dei principi sanciti nella Costituzione.
Né possiamo solo sperare che sia il Presidente della Repubblica a porsi come baluardo a questo sfregioperché, come abbiamo già visto in altre occasioni, senza un popolo da rappresentare la figura di garanzia perde gran parte del suo potere sostanziale nonostante gli resti quello formale.