Succede Spesso che dopo una pioggerellina primaverile, quando le gocce cadono piccole e rade, dal centro del confine tra il mare e il cielo dell’ampio golfo di Salerno, nasce un arcobaleno che va a posarsi in una delle tante rade scavate dal dito di Dio a formare i verdi merletti della Costiera Amalfitana.
Visto dall’ampio terrazzo a strapiombo sul mare de “I Due Fratelli” di Vietri sul Mare, l’arco colorato del cielo sembra posare la base terrestre nel punto in cui è Atrani. Forse è solo illusione rifratta di mille goccioline iridate di pensieri e di sogni, che vogliono in quel pugno di case strette e sovrapposte l’una all’altra l’incontro con l’ambasciatore del bel tempo.
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Nei suoi appunti di viaggio, Ferdinando Gregorovius scriveva: «Sotto il calore del sole pomeridiano scalammo le montagne fino a Maiori, girammo intorno a un promontorio e vedemmo davanti a noi Atrani, che è separata da Amalfi da una gigantesca roccia.
La posizione di Atrani sorprende per la sua grandiosità.
Sulla costa più alta le cui rocce giungono fino alle stelle, la città si ammassa come una piramide verso la montagna. L’architettura pittoresca delle case con le loro logge rende l’aspetto ancora più singolare, ed abbagliante è il bianco dei muri sullo sfondo nerastro delle rocce.
Queste, ai lati del paese, si dividono in due gruppi, attraverso i quali si stende una verde ballata.
Le rocce sono incoronate da torri e castelli. In alto tra le fessure del pietrame, cresce la palma a ventaglio. Tutt’intorno, sulle ripide pareti dei monti, si trovano altre località verso le quali si sale con grandi sforzi, situate come sono in un isolamento roccioso assai selvaggio; però anche a quest’altezza sono ancora circondate da viti e dall’ombra dei castagneti».
Per un paese come Atrani, il più piccolo ed il più intensamente popolato Comune d’Italia, questa descrizione potrebbe anche bastare.
Ma Gregorovius, come tanti altri, si è fermato a descrivere egregiamente l’epidermide urbana e circostante di questo sito ameno legato ad Amalfi come “culo e camicia”.
D’altra parte alla vicina città è stata sempre unita – e non poteva essere diversamente – la storia, la vita l’economia di questo nucleo di case bianche sorto come rione del potente Ducato.
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Un rione, però, importante, visto che qui risiedeva, quasi in dorato isolamento dalla pazza folla, la nobiltà dell’antica Repubblica Marinara. Non a caso ad Atrani, nella chiesa dedicata al Salvatore, il Doge riceveva il birecto del potere e del comando all’atto della sua investitura.
Un legame che si srotolò nei secoli, ininterrottamente fino al 1578 quando i contrasti campanilistici ebbero il sopravvento, sfociando poi nella costituzione dell’Università di Atrani.
Pur stando così vicino alla più importante e internazionale Amalfi, questo bianco paese di vie pensili e gradinate nascoste, non ne è un’appendice, né tantomeno l’enigma di un luogo senza tempo.
“È destino comune delle città, ma non solo di esse, – scriveva Leopoldo Cassese – di essere avvolte nel mistero per la loro nascita; a questo non sfugge ogni sito, villaggio, paese, città della costiera amalfitana».
Ma in un itinerario nei paesi di sogno, è bello pensare che Atrani ha avuto la prima scintilla di vita su in alto, dove le rocce si ritraggono a formare grotte, come quella dei Santi, di San Michele, ove ascetici monaci della regola basiliana, amavano ritirarsi in raccoglimento per un solitario parlare con Dio.
«Dalla parte di settentrione – scriveva Matteo Camera – poco discosto dalla chiesa del Carmine, si osserva in uno speco del monte la chiesa di San Michele, edificata verso il XII secolo». E Adriano Caffaro aggiunge: «L’interno mostra le pareti irregolarmente inclinate della roccia ed accompagnate per tutta la loro lunghezza da tombe: infatti sino a qualche decennio fa è stato adibito a cimitero».
E continuando nella sua descrizione, scrive: «Poco al di sopra dell’antica via pubblica che collegava Atrani con Amalfi vi è la Grotta dei Santi, ricoperta da affreschi caratterizzati da una visione estremamente popolare, diffusa nell’area campana dal movimento dei monaci basiliani».
Poco distante da questa grotta con i santi sfregiati da moderni barbari e usata come ricovero di ovini, vi è la chiesa di Santa Maria del Bando, che dalla strada statale appare bianca e superba su uno sperone di roccia bruna. Deve il suo nome a due diverse tradizioni orali.
C’è, infatti, chi sostiene che da lassù venne letto un importante editto per gli atranesi i amalfitani, mentre altri sostengono che il nome derivi dal fatto miracoloso rappresentato in un quadro lì conservato ove è rappresentata la Madonna nell’atto di salvare dall’impiccagione un uomo ingiustamente condannato.
E c’è infine chi giura che tra quelle bianche ed isolate mura, si rifugiasse negli ultimi istanti di vita l’ormai stanco, deluso e braccato Tommaso Aniello di Atrani, ricordato dalla storia come Masaniello.
Miti, leggende memorie, storia da sempre si posano nel piccolo quanto grazioso catino della piazza giustamente ritenuto il salotto buono di Atrani. E mentre i pensieri si raccolgono non è difficile ascoltare la voce di un mandolino che rimanda dolci villanelle o antiche melodie del sei-settecento napoletano.
Tra queste case che si intuiscono piccole, vi è tutto un fascino che i turisti guardano con occhi giovani: qui si può ritrovare un’idea primitiva, lontana, forse anche storica della costiera amalfitana. Atrani è come la panchina solitaria disegnata da Aurel Spachtholz: «L’ho scelta perché mi dà l’idea di un paesaggio, di un certo paesaggio, da lì osservo… l’ho disegnata in fuga, perché la costiera fugge, nel silenzio puro, assoluto.
Ti siedi per pochi minuti. Riposi e sei trasportato fuori da te, un sogno, è nel silenzio che ti senti vivo, nella solitudine assoluta ritrovi te stesso».
Ti siedi in piazzetta all’ombra della maiolicata cupola della Maddalena, con alle spalle i potenti arconi che sostengono la strada e lo sguardo si ritrova a penetrare il buio di innumeri cunicoli, prodromi di stradine e scalinate, slarghi improvvisi, mascheroni agli angoli di case esorcizzanti antiche paure. Una colonna di sostegno, uno stemma vagamente gentilizio, una riggiola devozionale, riportano la mente e l’anima a memorie storiche, alla bottega delle mani ove il quotidiano si coniugava tra sudori e stenti.
Così come dura era ed è l’erta su per i màceri, alla conquista di un piccolo pianoro, un fazzoletto di terreno ove porre a dimora e far crescere i gialli agrumi.
Dal suo capo di roccia sul mare, attenta scruta l’orizzonte la Torre di guardia, la prima ad essere costruita dopo l’ordine del viceré don Pedro di Toledo nel 1544.
Dalle sue feritoie rivolte al mare si affacciavano grosse artiglierie ricavate dalla fusione delle antiche campane del monastero di San Lorenzo in Piano.
Nelle viscere del paese le scale salgono senza fine, si intrecciano a formare immaginari arabeschi con i quali intessere la trama di un tessuto urbano. E quando si è in alto, dalla loggia di una casa dai muri bianchi, lo sguardo si allunga sulla Costiera: allora questa dolce ninfa non è più una realtà, ma una favola, uno spazio dell’anima, il luogo dell’immaginario sospeso nei cieli. E ritorna l’arcobaleno, con i suoi colori cangianti nel movimento delle sognate, rade gocce di pioggia dell’anima sospesa nell’infinito dell’eterno. Guardi e ritornano alla mente le parole di Henry W Longfellow, perché avanti a te è la «visione di un paradiso perduto da lungo tempo».
Atrani, piccolo sogno mediterraneo, che conserva ostinatamente la sua riservatezza, tenendosi fuori dalle girandole turistiche, nonostante ci sia non poco spazio da occupare.
Ma forse Atrani non vuol barattare i suoi silenzi con il chiasso dei barbari, con la rombante ruberia della pace; le basta continuare a godere del discreto scalpiccio di passi solitari nei vicoli ed essere, come scriveva Stefan Andres “terrazza nella luce”.