di Carlo Aquilar
E’ sul cadere di un inverno mite, come quello di quest’anno, che bisogna recarsi a Paestum, per ben spiare il sopraggiungere della Primavera.
Dalle radure, dagli sterpeti, dall’erbe folte, in nessun luogo, come lì, sembra che si sollevino, anzi tempo, gli aromi della stagione sovrana, rianimanti le figure superstiti nell’enormità di una morte a nessun’altra pari, e i contorcimenti di non so che grandi corpi rossastri sulle cariatidi dei templi, o presso gli squarci e le fenditure in cui sibila la raffica e si addensa l’ombra come una moltitudine tacita.
I giardini di rose, che circondano gli ingenti e misteriosi santuarii pagani, son come giardini pensili di un gentile portico, privo di sue colonne bine. Ma, più lungi, gli alti fusti dorici, in intervallo eguale, sembrano ravvicinarsi nella fedeltà delle loro lunghe ombre, fino a sfiorare con esse le piante varie, e gli arbusti e i cespi che si affoltano, e tutto quel verde, che non vale se non per sostenere il languore appassionato di qualche rosa bianca.
Nelle ore di luce sfolgorante, la terra sembra che si sollevi, come per respirar forte, e le forme scomparse rinascono e si ricompongono, quasi per liberare la ruina dai suoi vestigi di vanità e di miseria intrusa, e farla respirare nell’antica grandezza, per tutte le bocche delle sue ferite.
Nessuna desolazione. La città greca non ha paragone con quelle romane di Pompei e d’Ercolano.
Nessuna casa demolita! Nessuna serie di finestre murate! Nessun corridoio cosparso di calcinacci! Nessun’aula biancastra, con sulle pareti le tracce dei lordume umano e dei tramezzi sovrapposti! Nessuna porta inchiodata sopra varchi senza nome!
Ma il tempo. L’Immensa casa del dio. Quale gli antichi la videro e l’amarono. E presso ed essa un giardino, con tutti i fusti delle sue rose in travaglio, non già intorpidito ed imbiutato di un silenzio pingue come il miele, coma la cera, come la gomma.
La Grecia è a Paestum più che ad Atene! Ed è, sotto il cielo nostro azzurro, che si rivela e si colora, per virtù di una grazia che rassomiglia al principio di un incantesimo.
Chi potrà mai dire se Atene fosse più bella di Paestum, al tempo del suo massimo fulgore?
Di Atene si sa tutto, mentre che di Paestum si ignora ogni cosa.
La grande metropoli greca constava di due città circolari, della circonferenza ciascuna di dodici chilometri, congiunti tra loro mediante una strada della lunghezza dei sei chilometri e mezzo. Orbene, non è questa, presso a poco, la posizione e il carattere della nostra antica cittadina di Lucania, posta poco lungi dal Silaro. Tra il mare e una diramazione del monte Alburno?
Rispetto alla popolazione di Atene variano le opinioni, non potendosi precisare in quali proporzione stesse la medesima col restante dell’Attica.
Ma, chi può darci un’idea del numero degli abitanti che vissero nell’antica Posidonia?
Per Atene, se ci atteniamo al censimento di Demetrio Falereo, compiuto nel 317 a.C., che è quanto di più antico e sicuro è conservato, ci risulta che i cittadini erano 21.000, diecimila erano metoeci ossia stranieri, e 400.000 erano schiavi!
Ma queste cifre sono esse esatte!
Se dai tempi di Demetrio Falereo retrocediamo al florido periodo della storia ateniese, troviamo la cifra dei cittadini di Atene, calcolata a 20.000 talché si avrebbe mezzo milione circa per la popolazione totale dell’Attica, la qual cosa può rilevarsi anche dal consumo delle granaglie che al tempo di Demostene era di 31.000 chilolitri di grano importato, oltre due milioni di medimni di grano raccolto nell’Attica.
Non è possibile quindi determinare precisamente la popolazione di Atene, che era troppo dispersa nei dintorni della città. Tucidide ci assicura che gli Ateniesi “eran troppo vaghi della vita campestre” e che, prima della guerra peloponnesiaca i dintorni di Atene erano adorni di ville.
Anche i demi, ossia i distretti comunali, o per dir meglio i comuni rurali, erano popolati di gente diversa, così che Acharne, uno dei più grandi personaggi del tempo, contava (nel 431 a.C.) 3000 opliti, o militi di grave armatura. Ciò fa supporre l’esistenza di una popolazione libera di almeno 12.000 abitanti, non compresi gli schiavi.
Comunque, Senofonte e Tucidide ci dicono che Atene fosse, ai loro tempi, la più popolata città della Grecia; ed il primo asserisce che essa conteneva più di 10000 case.
Ciò lascia argomentare che la popolazione totale fosse di almeno 200.000 anime.
Ma….. e Paestum?
Nulla si sa di questa città abbandonata in una campagna deserta, allagata da sorgenti solforose, e da quella lenta correntia di cui parla Strabone, e che i moderni chiamarono Fiume Salso!
Fu Dorica? fu Fenicia? fu Pelasgica? fu etrusca?
Nessuno potrebbe dirlo! Erodoto parla incidentalmente di questa città, e appena ci fa conoscere che esisteva già, (e certamente qual paese considerevole) all’epoca di Velia, ossia verso il 540 a.C.
Tuttavia ebbe i suoi templi magnifici, e le sue porte e, chi sa, forse, anche i suoi sobborghi, simili a quelli di Atene, al Ceramico, cioè, al Cinosargo, al Licabetto e a quell’eccelso Liceo, detto così perché era dedicato ad Apollo Liceo.
La città di Paestum aveva le sue porte (e gli scavi odierni ne han riportato in luce talune); ma non certamente esse dovevano essere undici quant’eran quelle di Atene, dal Diplum alla Porta Sacra, dalla porta Peiraica a quella di Diocare, da quella Eriaca alla porta Egea. Inoltre, il primo aspetto di Atene non doveva riuscire gradevole al forestiere, perché, al dire di Dicearco, che la visitò nel IV secolo dellìéra volgare, era una città polverosa, mal fornita di acqua, mal costruita, con casupole anguste, contrastanti con la magnificenza dei pubblici edifici.
Se la “nostra Grecia” doveva rassomigliare a quella al di là dell’Adriatico, anche a Paestum le case non potevano avere più che un piano, e i piani superiori dovevano sporgere sopra la strada.
Ma gli scavi ci han dimostrato il contrario. Ci ha dimostrato ciò che qui nella nostra terra, le abitazioni non erano di legno o di mattoni non cotti, e disseccati all’aria aperta; sibbene di validissimo materiale architettonico, atto a sfidare (come in realtà ha fatto) i secoli ed i millennii.
La storia delle rovine di Paestum è veramente singolare.
Durante tutto il medio-evo, quei templi formidabili che testimoniavano degli antichi culti e delle originarie fedi, giacquero non curati, se non ignoti. Le genti della contrada non li curavano affatto, ed il paese essendo divenuto insalubre e infestato da masnadieri, i forestieri non si attentavano a penetrarvi.
Quando Don Carlo di Borbone, conquistata Napoli, verso la metà del ‘700, fissò in essa la sua sede, il gusto delle arti e delle antichità venne ravvivato. Essendo stato nominato Comandante generale dell’artiglieria il conte Felice Gazola di Piacenza, questi ebbe occasione di visitare la costa, e, come “uomo intendente di arti” rimase meravigliato dei templi e degli antichi avanzi di quella solitaria regione, e ne prese i disegni, con l’idea di pubblicarli, cosa che non ebbe effetto, per la partenza immediata del re alla volta di Madrid.
Tuttavia, nel 1758, il nostro grande Mazocchi, nella sua opera sulle tavole Eracleensi inserì una dissertazione su Pesto e sulla sua storia e fece menzione del conte Gazola, come quello che aveva richiamato l’attenzione degli studiosi selle rovine dell’illustre città.
Winckelmann, che visitò Pesto nel 1758 fece alcune osservazioni sui templi di quella città, pur senza spingersi a paragonarli a quelli di Atene. Né ciò fecero i successori di lui, e in particolare il Delagordette e l’inglese Wilkins.
Ora chi mai, al giorno d’oggi, non può riconoscere la grande rassomiglianza strutturale dei templi di Atene e di quelli di Paestum? Taluno, come il Tescion, rassomiglia siffattamente al tempio di Nettuno o Posidone, che sembra siano sortiti entrambi, dalle mani di uno stesso artefice.
Ma il tempio di Paestum, il “nostro tempio”, (per distinguerlo da quello di Grecia), è assai più bello! Vi domina la architettura dorica, ma in maniera massiccia e solida. Lo stile è purissimo, qual doveva adattarsi – cioè – al più antico esemplare dell’ordine dorico ancora superstite…
Solitario e deserto, si leva nell’immensa pianura con tutta la possa della sua gigantesca struttura, quasi per congiungersi all’antica anima del tempo lontano, quasi per raggiungere le lontananze immensurabili di sua vita scomparsa.
Intorno, tutto è bianchezza e lentezza; e i primi veli diafani della Primavera, per la fiumana di oblio che scorre inesorabile dovunque, si fanno, già fin da ora, di indistinti, distinti; se bene ogni pianta, ogni arboscello, ogni cespuglio ed ogni albero nella sua capellatura ancora un po’ di ombra.
Dall’archivio storico di Diodato Buonora