Non vi è fatto rilevante tra il 1799 e il 1860 che non veda coinvolti i Cilentani in insorgenze, rivoluzioni, guerre. La posizione strategica faceva della sub-regione una importante pedina nei contrasti di potere sperimentati a Napoli. Gli abitanti del distretto si distinguono per una attiva partecipazione alle vicende del 1799. La congerie di avvenimenti determina una grave instabilità sociale che favorisce il diffondersi del brigantaggio, uno dei più gravi ed endemici mali della zona in quegli anni.
Nelle relazioni della polizia e delle autorità borboniche i Cilentani diventano gli abitanti della “terra dei tristi” nel distretto “attendibile” per antonomasia. Negli ultimi anni del regno, dopo il tentativo di repressione e di restaurazione successivo agli esperimenti costituzionali del 1848, tali giudizi vengono ripetuti con crescente insistenza In realtà, essi rivelano la incapacità delle autorità a cogliere la situazione nella sua complessità. Infatti, ci si sofferma a relazionare sulle manifestazioni esteriori di endemico ribellismo Soltanto in alcuni documenti e nelle relazioni di pochi funzionari si coglie il convincimento che i continui disordini hanno motivazioni economiche. In un rapporto di polizia stilato nell’anno della rivoluzione si riferisce che il Cilento è la terra dei “ladri, ove la maggior parte delle popolazioni manca di mezzi”
Una rilettura degli episodi più salienti occorsi nel primo sessantennio del XIX secolo facilita la comprensione della situazione, della quale si premette il seguente schema .
Il Cilento conserva caratteristiche di marginalità:
-ambiente con poche risorse
-società arretrata e chiusa
La crisi si aggrava perché mancano i protagonisti della modernizzazione:
ceto dirigente moderno
dinamica articolazione economica
Vi opera un ceto subalterno costituito da:
-contadini, da sempre conservatori,
portatori di aspirazioni socio-economiche
tradizionali ( es. usi civici)
-masse sanfediste
-manutengoli di briganti
-fanti di tante colonne di insorti
In realtà sempre oggetti e strumenti per fini di altri gruppi, mai protagonisti.
Evidente l’utopia di Pisacane e l’impraticabilità di un socialismo popolare
Cultura, etica, religiosità sono condizionate da una civiltà materiale distante dai poli di sviluppo europei, italiani, campani
Vi opera un ceto borghese molto diviso nei programmi
-responsabile della direzione dei moti
-evanescente come ceto dirigente capace di
orientare la modernizzazione
-abile nel controllo socio-economico
Ne deriva una chiusura rispetto ai valori fondamentali del Risorgimento inseriti in un contesto europeo
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I Giacobini tra mene borboniche e ostilità rurale
Nel l 799, con l’entrata dei Francesi a Napoli, vengono inviati commissari in tutte le province per convincere la popolazione ad accettare il nuovo regime. I tentativi non sortiscono l’effetto sperato, infatti nonostante alcune precipue caratteristiche, le città italiane condividono l’avversione per la campagna. Il senso di disprezzo, di odio, di paura contro il villano anche nel Mezzogiorno è molto diffuso. Nelle poche emergenze urbane costituisce un condizionamento da considerare per comprendere gli esiti della Repubblica Partenopea, schiacciata non tanto dalla turba cittadina, che pure ha sempre manifestato venerazione per il re, come dimostra l’atteggiamento dei Luciani partenopei, ma dalla campagna organizzata dalle orde del cardinale Ruffo. A parere di Gramsci, la Repubblica sia nella prima fase aristocratica, che nella seconda borghese, trascurò la campagna.
Nel Cilento il commissario Mastrogiacomo s’impegna ad organizzare le municipalità, coadiuvato da Luigi Amendola che, giunto nella Valle di Novi, il 4 febbraio fa innalzare l’albero della libertà inaugurando il regime repubblicano. Così i paesi della Valle di Novi accettano il nuovo ordinamento; ma l’entusiasmo per la repubblica non dura molto. Il nuovo regime si aliena il consenso della borghesia moderata, negativamente impressionata da una malintesa libertà, che facilita ,il perpetrarsi di una serie di vendette e soprusi da parte delle fazioni locali mettendo in pericolo la vita e i beni dei cittadini, specialmente delle famiglie che hanno fatto fortuna negli ultimi decenni del XVIII secolo. Diffusa la notizia dell’avanzata del cardinale Ruffo, ci si prepara alla controrivoluzione e si vivono settimane di estrema confusione. Solo a metà di aprile si riesce a stabilire l’ordine e, ad esempio, a Vallo si procede alla nomina degli amministratori a Vallo.
Il partito controrivoluzionario si mostra più forte, può contare infatti sull’appoggio del vescovo di Capaccio, in questi mesi l’unica indiscussa autorità nella zona. Il prelato, ricevute le credenziali di plenipotenziario dal porporato, constatato il crescente malumore per le discordie e per la confusione, organizza in tutta la diocesi, che comprendeva i Valli di Novi e di Diano ed il Cilento, la controrivoluzione indirizzando lettere e messaggi a tutti i parroci per indurli a formare delle squadriglie da inviare a Sala, dove fa convergere le milizie sanfediste operanti nel territorio.
Questi avvenimenti si accompagnano ad una lunga serie di luttuosi episodi, dai quali traspaiono le reali motivazioni che spingono la popolazione a partecipare alle vicende politiche. Saccheggi, uccisioni, vendette si registrano ovunque. Noti sono, ad esempio, i fatti di Piaggine soprane e sottane, Laurino Castel San Lorenzo Albanella. Nella Valle di Novi i controrivoluzionari commettono molte violenze dopo che hanno conquistato il potere. Sono organizzati dal duca di Cannalonga e dai monaci celestini di Novi. A Vallo, al contrario, è rimasto un discreto numero di repubblicani, esponenti in genere della borghesia togata, i cui componenti, come in altri paesi, hanno avuto la possibilità di studiare a Napoli e conoscere le nuove idee frutto della rivoluzione francese. Impegnati a divulgarle nella zona, si scontrano col partito realista. Ma, dopo un successo iniziale, devono cedere alla reazione. In queste contrade le vicende politiche contribuiscono ad indebolire il già fragile tessuto sociale, si diffonde così la piaga della delinquenza e del brigantaggio Gli abitanti, colpiti nei propri interessi da questo stato di cose, si organizzano per difendere l’ordine pubblico e poter continuare i traffici. Costituiscono una specie di guardia civica col compito di vigilare il tenimento e prevenire gli assalti dei sanfedisti. Quando a maggio giunge la notizia dell’avanzata delle orde di Panedigrano, i repubblicani, constatata l’impossibilità di difendersi, si recano a Napoli, dove alcuni trovano la morte. E’ il caso di Diego De Mattia nel vano tentativo di bloccare la marcia alle armate del Ruffo.
Gli episodi del 1799 rivelano la profonda dilacerazione della società cilentana, l’incapacità di pervenire ad una intesa per provvedere ai propri bisogni. Sulla massa dei contadini, braccianti, pastori e artigiani si consolida il predominio di un composito gruppo formato dalla nobiltà, che in questo periodo non ha una funzione predominante nell’azione rivoluzionaria perché nelle zone marginali ha perduto molto del proprio ascendente, e dalla borghesia. Quest’ultima non è un gruppo omogeneo; interessi economici differenti determinano scelte di campo non convergenti. In numero rilevante sono piccoli imprenditori agricoli, commercianti e possidenti che cercano di trarre il massimo di vantaggi materiali da ogni congiuntura economica e politica. Soltanto in pochi, culturalmente più sensibili alle nuove istanze, si sforzano di portare a compimento programmi vagheggiati nelle proprie letture o maturati negli anni di studi universitari nella capitale, dove hanno frequentato circoli culturali nei quali si dibattevano le nuove idee.
L’errore più grave è credere di essere gli unici protagonisti; trascurano, con un atteggiamento chiaramente illuminista, il popolo che, invece, dà prova di sorprendente omogeneità d’interessi, non compresi o disattesi da giacobini e repubblicani cilentani per i quali è impensabile procedere alle riforme fondiarie sollecitate dai braccianti.
L.R.