In un Cilento trasfigurato, tra rovine e scenari apocalittici, si muovono le creature di Arruina, esordio narrativo di Francesco Iannone. Una fiaba visionaria e oscura in cui, per un’antica maledizione, solo il sacrificio di una bambina (la Sperduta) potrà continuare la malefica esistenza delle streghe Nerissime: “Nascerà e avrà urla di tragedia e potenza di mulinello, avrà prodezze di fata e gobbe di mostro, nascerà e il sangue del suo parto turberà la fonte che disseta le Nerissime. E i loro corpi invecchieranno e il loro mondo scomparirà per sempre […] Verranno come il male, di notte. Come il blocco al cuore, di notte”. E’ poeta Iannone, e se nelle sue poesie della fame e della sete scriveva “camminare significa / tenersi sempre / nel corso d’acqua / ricavato nella terra / da secoli di pioggia”, anche nella prosa incandescente e inquieta di Arruina ci troviamo di fronte a un’odissea terrestre che è discesa negli abissi oscuri della propria interiorità: “Noi siamo ancora qui, camminiamo su questa terra che borbotta, con un principio di giubilo nella glottide. Con la voce aspra dei nascituri che cercano disperatamente di esistere […] Respiriamo con la fatica degli astronauti immersi in una galassia calcarea”.
In questa narrazione epica in prima persona assistiamo in medias res alla lotta dell’uomo con il male, al cammino ancestrale dei genitori alla ricerca della Sperduta attraverso una terra straziata che può forse ricordare quella di Cormac McCarthy: “Ora rimangono solo macerie, e ci camminiamo dentro. Avanziamo tra i calcinacci. Ti tengo per il braccio perché i cavi elettrici si sono staccati dai pali e ora formano un groviglio sotto ai nostri piedi”. Un allegorico pellegrinaggio guidato da mostruosi compagni di viaggio (la Briganta, il Poeta Antico, la Sciangata, O’ ‘Mpasturato, il Matto) alla ricerca di un bene inseguito spes contra spem, portando addosso i segni della fame e della sete, il dramma dei nostri corpi feriti eppure misteriosamente vivi. “Noi non siamo il male” ci sussurra Iannone accompagnandoci a toccare la dura materia dell’esistenza, la terra, il fango, il baratro del mondo e del proprio io.
Colpisce questa lingua incisiva che unisce al dialetto campano la forza di un’antica litania sorretta da formule magiche, ripetizioni, parole ferite che si fanno carne, vertiginosa preghiera: “I bambini immortali camminano come scandendo una marcia. Fanno il canto della fine. Fine di finimondo, di finte albe, fine di malalengua e capestuotoco e liscebusso. Fine di infinite volte diavolo e iastemma. Fine di fulgide armi buttate nella fossa dai fetienti”.
Parole che avvengono misteriosamente sulla pagina, nomi sopravvissuti alla catastrofe e alla disperata ricerca di una verità intuita se non per barlumi, per impreviste accensioni nel buio: “Sei nel sobbalzo di un altro mondo mentre la Sperduta ci chiama dalla culla, ‘Didi deda’. Dobbiamo voltarci. Ancora gambe, ancora occhi, e rumori di fiammiferi che si accendono nella bocca di qualcuno”.
Francesco Iannone
il Saggiatore, 155 pp., 20 euro