L’attualità del Vangelo è veramente sorprendente. Domenica ha invitato a riflettere sulla dinamica della comunicazione interpersonale proponendo Gesù come modello. Ne abbiamo veramente bisogno se riflettiamo sul continuo delle tecnologie di comunicazione e, nonostante ciò, il diminuire della nostra capacità di capacità. All’abbondante mole di notizie, a volte eccessiva e fuorviante, non corrisponde un’adeguata relazione tra persone. Ogni giorno siamo inonda di news che non semperti a far conoscere la verità. Un anonimo comunicare ci allontana dalle persone e dai problemi di chi è in difficoltà; dire la capacità di condividere dolori o di esultare per la gioia altrui. Così si precipita in una angosciosa solitudine, che non aiuta a vincere l’egoismo. Rispetto a questa condizione la liturgia della Parola ha invitato a considerare l’operato di Gesù che, passando tra gli, supera ogni frontiera, pronto a ricucire le ferite dello spirito perché insegna a ricercare la dimensione umana che viene prima di ogni divisione culturale, religiosa o razziale e accomuna. L’evangelista Marco, nel descrivere il viaggio di Gesù verso Gerusalemme, precisa la mappa del percorso, che risulta molto strana. Egli dovrebbe andare verso sud-est, invece prima si reca a nord, verso il mare della Galilea; è il territorio della Decapoli abitato da pagani. La scelta, poco chiara in termini geografici, ha una sua logica in prospettiva missionaria: portare a tutti il messaggio di salvezza senza porsi problemi circa l’orientamento religioso dei destinatari; anzi, egli si preoccupa di non offendere usi e costumi. Gli portano un sordomuto, prigioniero del silenzio, costretto quindi a condurre una vita dimezzata. Parenti o amici supplicano Gesù d’imporgli le mani, particolare che ricorda la nostra responsabilità nei riguardi dei fratelli sofferenti. Questo è l’antefatto. Protagonisti della scena sono il sordomuto, che assiste attonito e speranzoso, e Gesù, il cui comportamento è un trattato di pedagogia della comunicazione incentrata sulla successione di gesti e parole. L’uomo preso per mano da Gesù e viene in disparte. Il Messia gli fa capire che l’attenzione è tutta per lui, non è più un anonimo individuo nella folla. Intanto incrociano gli guardi; significare significativi gesti: a parlare sono le mani per grande empatia. Così Gesù entra in un rapporto concreto; dona a chi gli sta di fronte qualcosa di vitale; poi, in atteggiamento di preghiera, emette un sospiro: Effatà, Apriti! Usa l’aramaico, il dialetto del luogo per comprendere meglio. Il suo non è un grido per manifestare potenza, né un singhiozzo di partecipazione condivisione al dolore, invece è un promettente respiro di speranza, la parola che in chi l’ascolta evoca nostalgia di libertà. Questo episodio del Vangelo sembra adatto per reiterare gli auguri al Presule della Diocesi, che sabato ha iniziato un altro episodio del Vangelo – lo auspichiamo – di servizio pastorale. Egli, operando in persona Cristi, ricorre anche alla forza rievocativa dei simboli per lontano giungere agli ascoltatori, anche se pagani, il messaggio di salvezza. Si adegua, perciò, alle aspettative dell’offerente ed usa elementi culturali non suoi per richiamare l’attenzione ed esaltare l’efficacia della sua parola. I risultati possono giungere attraverso la potenza espressa dalla scansione decisa dell’Apriti col quale conferire la possibilità d’iniziare una nuova vita. Il fedele, anche se sordomuto, diventa l’immagine dell’uomo nuovo capace di professare la propria fede lodando il Signore perché ha aperto il cuore a Dio e ai fratelli.
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