Erano gli inizi degli anni ’50 del secolo scorso quando Antonio Franchini, architetto per studi e artista per vocazione, giunse a Vietri sul Mare, su invito di don Vincenzo Solimene, che all’epoca stava costruendo la grande fabbrica a “prora di nave” su progetto di Paolo Soleri. E l’incontro tra questi e Franchini fu all’insegno del “rivedersi” dopo gli anni di studi all’Accademia di Brera. Una fucina, quella, di arti varie dalla quale hanno preso il via idee scompaginatrici di schemi abusati. Basti pensare a Bruno Munari, Gillo Dorfles, Lucio Fontana, Luigi Veronesi, Enrico Baj, Atanasio Soldati, Gianni Monnet ed altri, che diedero anima a nuove concezioni d’arte. Franchini colloquiava con loro, in specie con Munari, uno dei fondatori del MAC (Movimento per l’arte concreta) che promuoveva l’arte non figurativa, e Lucio Fontana che rappresentava il mondodella ceramica espressionista. Fu attento osservatore, Franchini di quelle realtà e alla fine venne fuori la sua figura d’artista “non catalogabile”, come ebbe a scrivere Francesco Praderio, per il suo essere trasversale.
Le prime esperienze ceramiche furono ad Albissola con Tullio Mazzotti, Giuseppe Capogrossi, Aligi Sassu, ed altri con i quali completerà la “Passeggiata degli artisti” sul lungomare. Nel 1952 con Giorgio Sala realizzò la mostra “Quattro poesie disintegrate”, una rappresentazione a curve, sfere, cupole, segni senza spigoli, “astrattismo libero da ogni imitazione e riferimento con il mondo esterno, di orientamento prevalentemente geometrico”, armonia di segni che trasferirà su superfici ceramiche quando entrerà nel pieno della sua produzione d’arte fittile.
Capelli a coda di cavallo, viso sfinato, occhi vivi, attenti, mani inanellate, abiti colorati, Franchini era sostanzialmente un girovago o, se vogliamo, uno “zingaro dell’arte”, facendo esperienze nel suo “vagare” sui luoghi di attrazione ed emozione. E fu Parigi, sempre negli anni ’50, per una esperienza unica, poi Venezia, dove conosce Le Corbusier: ed è l’evoluzione artistica che porta Franchini sulle rive della progettazione, messa a frutto collaborando con “Fontana arte”, azienda specializzata in oggetti d’arredamento in vetro.
Quel suo “muoversi” per le strade italiane e straniere e per i grandi viali dell’arte europea, imprimono nell’artista bolognese una nuova necessità espressiva in contrapposizioni segniche: alle sfere (la perfezione) contrappone il labirinto (luogo dello smarrimento). Così il suo, diventa un segno di “narrazione dinamica – scriveva Raffaele D’Andria – una radiografia di vibrazioni irregolari, amplificate o ridotte”. E la mente corre a Maurits Escher, alle sue grafiche, ai suoi “strange loop”. Franchini si era ritagliato il suo spazio di protagonista della vita artistica e culturale italiana degli anni ’50!
Poi fu Vietri, e fu la ceramica, prima alla Solimene, dopo alla RIFA e quindi nel laboratorio di Lucio Liguori a Raito, località dove prese abitazione nel 1998 lavorando alla fabbrica di don Raffaele Pinto. I suoi precedenti soggiorni erano stati Praiano e Positano: quasi un viaggio inverso a quello compiuto dagli artisti tedeschi che, negli anni della seconda guerra mondiale, da Vietri si erano trasferiti a Positano.
Ricordava Franchini: «Il mio arrivo nella piccola cittadina costiera è paragonabile a quello della maschera di Meneghino», intendendo per questo di essere un personaggio libero, lontano da stereotipi. Poi aggiungeva «Fui completamente affascinato ed assorbito dall’arte ceramica, fui subito colpito dal ‘mal di Vietri’. Era la Vietri dei miti e delle favole, come quelle raccontate dai pennelli di Giovannino Carrano».
E a Vietri, per le sue creazioni ceramiche usa a volte pennelli laghi, tracciando segni ampi, concatenati, spesso appartenenti ad un unico modulo che, ricordava Franco Passoni, suggeriscono “vorticose, frenetiche matasse”. Un cromatismo unico, affascinante, dove il connubio tra il viola e il manganese era da favola, a richiamo di Tullio d’Albissola, ideatore delle ceramiche “dinamiche, dai forti e smaglianti cromatismi, con forme ispirate al futurismo”. Alle linee in spirali interplanetarie, spesso abbinava una goccia di ramina o di “smalto camaleonte”, come lui lo definiva, quasi a richiamo di un simbolismo giapponese.
Parlava poco, Franchini, come a voler lasciare all’interlocutore la facoltà di meditare su quel poco che diceva e su quel tanto che produceva di emozioni ceramiche. Parlava ancor meno negli ultimi anni, quando ammalato, ma renitente alla malattia, meditando ad alta voce, dava forma “ai fantasmi del passato”. Gli ultimi suoi lavori, realizzati nella solitudine dell’anima, furono l’estremo racconto della sua vita d’artista svoltasi tra vicende esistenziali e sentimentali.
Era nato a Bologna il 4 settembre 1923 da una famiglia di musicisti, che si trasferirono, l’anno successivo, a Milano, dove Franchini visse e studiò sino alla laurea in architettura. Morì nel 2006 nella sua casa di Raito.
Tredici anni dopo, in questi giorni di fine estate, ad iniziativa di “Puracultura” di Antonio Dura e Claudia Bonasi, e la direzione scientifica di Raffaele D’Andria, Antonio Franchini è stato ricordato con una prestigiosa retrospettiva dislocata ad Amalfi (ex cartiera Cavaliere), Salerno (Museo Archeologico) e Vietri (fabbrica Vincenzo Pinto). Chiusura mostre domenica 15 settembre.