I racconti del reale / vite sommerse Ismaele nel Moby Dick di Melville sosteneva: [… Il modo di cacciare la malinconia e di purificare il sangue] […quando un novembre triste e nebbioso si insinua nella mia anima, quando mi sorprendo a fermarmi davanti ai negozi di pompe funebri e a seguire tutti i funerali che incontro, è tempo per me di levare l’àncora.] Così Ismaele cominciò ad imbarcarsi come marinaio ed è l’inizio di uno dei più grandi romanzi della storia della letteratura. Anna tutti i giorni legge i manifesti dei morti ma non ha il coraggio di levare l’àncora e partire per nuovi mondi e una nuova vita. Non ha il coraggio di abbandonare il paese, gli affetti, e dare un calcio al passato. Anna cammina di notte e di giorno a piedi aperti, appuntiti e sghembi sul ciglio di una strada. Indossa un vistoso giubbino col cappuccio anche se fa caldo. La pelle del kway, di colore verde tartaruga è un carapace che la protegge sia dal sole che dagli occhi dei passanti. Ha lo sguardo furtivo di chi sta rubando la carreggiata alle automobili. Un passo lento sotto il fisico sottile e il taglio dei capelli quasi a caschetto a denotare un accenno di femminilità. Il respiro ha il ritmo giusto, regolare, mai affannato, è un carburatore ben registrato nei suoi giri. Ha il volto da eterna bambina nei suoi 40 e passa anni, come se il suo corpo si fosse fermato all’adolescenza, fermato nel tempo passato. È un po’ di mesi che la strada gli appartiene: è il suo cammino nel mar Rosso tra le muraglia d’acqua aperte – per lunghissimi anni ha conosciuto soltanto delle bianche pareti della sua casa. Il bianco che le appartiene come il giglio della festa di Nola e lo terrà fino alla fine della storia. Usciva nel cortile a guardare i fiori nel giardino soltanto alcune volte. Da piccola ricorda i giochi nel fienile con i suoi cuginetti e i suoi fratelli maggiori. Le corse in bicicletta a rincorrere il sole all’orizzonte di Varolato. D’estate veniva Còmpa Vito da Andretta, era una festa, e portava i suoi figli al mare di Gromola: uno di loro, il più taciturno sarebbe diventato il famoso cantautore Vinicio Capossela. Raccoglievano fagioli e pomodori al podere e poi tutti alla spiaggia di Varolato. Còmpa Vito e Còmpa Nazario, il papà di Anna, si erano conosciuti nelle fabbriche di piastrelle del reggiano, a Scandiano, e non si erano lasciati più di vista. Còmpa Vito era stato finanche il padrino al Battesimo di uno dei tre figli di Nazario. Anna era in quegli anni il simbolo del fulgore della felicità. Poi verso i suoi giorni migliori, i giorni che dall’adolescenza portano alla maturità, qualcosa si è spezzato. Frequentava l’istituto tecnico commerciale di Agropoli, viaggiava con gli autobus carichi di studenti, molti amici e amiche, un buon curriculum scolastico, un giorno tornò a casa e disse alla madre: “Da domani non esco più”. E da quel giorno non uscì più. Mai più. Un dolore contratto dentro al corpo e la mente, tenuto nascosto, che generava paura, timore, come una sorta di agorà-fobia. Rifiuto continuo di medici, psicologi, assistenti sociali, anche amiche e amici con cui comunicare e confidarsi. Nulla. Il buio che non si può raccontare. Genitori stremati ed afflitti per molti anni, per lunghissime stagioni della loro vita: come se fosse arrivato l’autunno nella loro casa e non comparisse più la primavera. Cosa è successo ad Anna? Amici e parenti non riuscivano a spiegarselo. Possibile che questa ragazzina dotata di talento e sensibilità non riesce ad uscirne fuori? Che tipo di trauma o pericolo ha potuto ravvisare? la violenza semmai era soltanto psicologica e la costringeva in un silenzio autistico e in continua compagnia dei fantasmi che le giravano nella mente. Una mattina di tre anni fa un dolore in pieno petto colpì suo padre Nazario. L’angina lo stava seguendo già da parecchi mesi con continui ricoveri e terapie. Non ce la fece. Dopo circa sei giorni uscì defunto dall’ospedale. Nessuno se l’aspettava perché non aveva l’età per morire. E non aveva il permesso di Anna di lasciarla. Anna aveva bisogno di tutti i ritagli del puzzle affettivo per crescere e strappare i demoni e i fantasmi da dentro al suo cuore. Nella camera ardente allestita nel salone di casa, Anna aveva voce e parole di ringraziamento per tutti, non sfuggiva a nessuno e in nessuna circostanza: come se gli si fosse aperto il mondo intorno, le strade dei cinque continenti portavano tutte a casa sua: quel giorno non era giorno da pensare di imbarcarsi, il Moby Dick poteva aspettare. Il dolore che si portava dentro, in quel momento luttuoso, era di tutti, era condiviso e ripartito in parti uguali. Gli spettri che spingevano il cuore e la mente, quel giorno, erano di ognuno, parenti, amici, conoscenti, compari, comare e consobrini. Le ore che seguirono la funzione funebre, dopo la tumulazione del defunto, furono per Anna il ritorno nel suo ascetismo domestico e per mesi non la vedemmo più. Ritornò soprattutto nel suo vortice buio, un tunnel dove la luce è lontana. “Il novembre triste e nebbioso” si insinuò di nuovo nella sua anima. Lunghi inverni e primavere senza cambi di stagione, il pensiero era fermo a quel giorno di tanti anni fa quando prese la decisione di un esilio autoimposto, quel giorno del Big Bang psicologico che aveva segnato la sua travagliata gioventù. Nelle prime giornate di primavera di quest’anno, inizia ad affacciarsi pian piano all’esterno come una lucertola al primo sole. Una rosa che sboccia dal roveto ardente col primo caldo, luce dei cuori e delle menti. È un fuoco che non brucia e soprattutto “lampada ai suoi passi”. – “Finalmente! Anna è ricominciata ad uscire!” eravamo tutti entusiasti e felici. Lunghe distese di campi coltivati, strade diritte che si perdono in un precipizio di mais fino al mare. La luce nei suoi occhi era riflessa nelle nostre pupille e si rifrangeva negli specchietti delle automobili al saluto di tutti i giorni. Uno spiraglio di primavera soprattutto per i suoi cari, i suoi familiari. Pian piano, però, dopo pochi mesi di camminate, (era arrivata perfino a 5 km. da casa) continuando a fermarsi e a leggere intere pareti ricoperte di manifesti di morti, quella lampada ai suoi piedi ha iniziato ad esaurirsi, la cera bollente come lava scendeva a consumare il tempo, come un giorno di guerra si mangia le ore, le vite, i palazzi e le speranze. Il mattino di ferragosto la sirena dell’ambulanza taglia in due l’aria del quartiere, nessuno immaginava dove fosse diretta. Paura porta morte. Paura porta angoscia, diceva un vecchio saggio, forse di origine cinese, ma potrebbe essere anche del Cilento, qui vicino, magari, chissà, vissuto in una grotta sotto al Monte Stella. Quel mattino Anna si alza, si lava e si veste come sempre ma non sa che il destino feroce è in agguato nascosto dietro uno stipite: all’improvviso perde conoscenza, barcolla, non riesce a stare in piedi, quando arrivano i medici è già in stato di semi incoscienza. Una corsa all’ospedale. Inutile. Anna ci arriva già in coma. Sapete quando vari organi si accaniscono tutti insieme contro di te: il cuore, i polmoni, il cervello, ogni organo sembrava avesse buttato la spugna, come se qualcuno avesse spento l’interruttore ad Anna. Niente da fare: è una lotta impari. Alcuni giorni dopo Anna ritorna in una bara bianca, anche il vestito è bianco, il suo volto è bianco. Un giglio fresco e imponente ai piedi della bara, quasi a ricordare Santa Maria Goretti la Patrona del paese. Le hanno messo una benda al labbro inferiore: gli infusori l’hanno ferita là, sulla porta delle parole mai dette e sempre trattenute. Anna oggi è un giglio: il capitano Achab la sta aspettando sul molo, aspetta lei per salpare. Destinazione Paradiso, attraverso i mari del Sud, sperando di non incontrare tempesta. Ci mancherebbe pure questa, un’ulteriore tempesta sulla strada che porta al Paradiso. Anna oggi è un giglio; è il giglio che lei avrebbe voluto donare a chi l’avesse salvata trenta, lunghi, anni fa. In lontananza un scricchiolio di una vecchia porta che sbatte: un epicedio, un lamento funebre. A volte per descrivere una morte, basta solo il suono perché muoiono anche le parole.
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