La dura verità è che siamo una società di voyeuristi. Ci piace spiare, buttare l’occhio oltre il buco della serratura.
E se abbiamo pochi dettagli, ne recriminiamo altri.
Lo dimostra molto bene il caso dell’eventuale Denise russa, Olesya Rostova. Trasmissioni come “Chi l’ha visto” campeggiano, a tutta forza, nei salotti di un certo entroterra campano; non si può fare un processo alla casalinga del Cilento o a quella della Valle del Calore che nasce e cresce con le puntate di Tempesta D’Amore e le domeniche con Mara Venier e la D’Urso, il problema va individuato alla radice. Il problema che ci ha resi, piano piano, un popolo di guardoni, specialisti del voyeurismo che hanno normalizzato il dolore altrui.
Il problema sta a monte, sta nella scelta di una trasmissione seguitissima di prendere in considerazione le parole di un’infermiera russa che vive in Italia, che vede Olesya Rostova in tv -la ragazza non ha mai conosciuto la madre e fa un appello in diretta- e segnala a “Chi l’ha visto” la somiglianza tra la Rostova e la piccola scomparsa nel settembre 2004 da Mazara del Vallo in Sicilia.
“Chi l’ha visto”, pur sapendo che la pista tracciata dall’infermiera russa ha dei fondamenti pari al nulla cosmico, decide di raccontare questa storia. Dalla serie “Sappiamo benissimo che le probabilità che la Rostova sia Denise sono nulle, ma tranquilli, noi vi raccontiamo tutto lo stesso”.
Il resto è storia: associazioni di foto (purtroppo è abbastanza palese che tra la ragazza russa e Denise non ci sia chissà quale grande somiglianza), primi piani, confronti di foto, somiglianze un po’ forzate e tirate per i capelli tra la bionda Rostova e Piera Maggio, la madre di Denise.
Inoltre, il profilo social della ragazza russa, pieno di Tik Tok, è stato letteralmente preso d’assalto da italiani. Gruppi di preghiera, attenzione morbosa e dettagli pruriginosi sulla vita della ragazza che avrebbe partecipato a un reality show stile “Geordie Shore”, testimonianze di inquietanti conduttori russi: il carrozzone trash è servito.
Tutto questo mentre una madre, Piera Maggio, non sa dov’è sua figlia dal 2004. Diciassette anni in cui non sai se tua figlia è viva o morta. Non hai nemmeno una lapide per piangerla. Diciassette anni che ti addormenti senza sapere dov’è è il corpo di tua figlia. Se respira o no.
La conferma è arrivata, ufficiale: Olesya Rostova non è Denise Pipitone. Un epilogo che tutti avremmo potuto immaginare, purtroppo.
Ma c’era davvero bisogno di fomentare tutto questo circo mediatico? Di smuovere le acque in questo modo? No, non c’era davvero bisogno di creare false aspettative (sapendo bene di crearle), di accostare la memoria di una bimba che è scomparsa all’età di quattro anni a tutto questo.
Non c’era bisogno di infilare il suo ricordo in questo manipolo di figure così trash e inquietanti: tutto ciò ha assunto i contorni di qualcosa di informe e grottesco.
L’amaro in bocca che si prova, alla fine di questa girandola, è che nessuno è salvo. Non è salva la piccola Denise, né la ragazza russa e nemmeno noi stessi, vittime e carnefici allo stesso tempo, vittime della nostra stessa sete di sapere, del nostro prurito che ci porta e ci porterà sempre a rovistare nel torbido. E la cosa più brutta è che non sappiamo nemmeno perché lo facciamo: scontiamo un’antica colpa, un vizio, ma lo facciamo senza chiederci nemmeno il perché. E forse è questa la cosa che fa più paura.
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