La salita lungo i gradini tagliati tra rocce di macéri, che porta all’antico Convento dei Cappuccini procede sempre con passo misurato, non tanto perché affatica la scalata, bensì perché gli occhi e l’anima sono come frastornati, rapiti dal profumo dell’aria e dalla sottostante visione.
«Amalfi è situata romanticamente – scriveva Wilhelm Waiblinger – come una fiaba di Ariosto» e ben può capirsi ciò che nel 1827 annotava il poeta tedesco August von Platten nel suo diario: «Ho letto ad Amalfi le Georgiche e i primi quattro libri dell’Eneide che avevo con me in volumetto».
Ancor più, mentre il passo continua con studiata calma il suo salire, ritornano alla mente le nostalgie poetiche di Henry W. Longfellow: Dolce il ricordo nel mio cor discende del bel paese c’oltre il mar si stende; dove si scontran le montagne e l’onde dove in mezzo al calor che si diffonde siede tra i gelsi Amalfi, e i bianchi piedi nella calma al mar bagnar la vedi.
Lo sguardo si allunga sui tetti, sul Duomo con lo splendido campanile, su torri costiere, su onde spumose a scrutare nel profondo ove, scriveva Giuseppe Gragano, «nascosta a tutti gli occhi mortali giace la città sommersa».
Nel suo Voyage de Naples à Amalfi, Edouard Gauttier D’Arc si chiedeva: «Dove sono i mille vascelli che portavano una volta ai confini del mondo la bandiera della repubblica trionfante? Dove sono gli arsenali le cui costruzioni incessantemente rinnovate coprivano il mare di vele innumeri? In quale palazzo si radunavano questi senatori, le cui leggi savie erano state adottate dalle diverse contrade d’Italia?».
A guardarsi intorno nulla resta di quelle antiche vestigia del fasto ducale che impose al mondo mediterraneo, con la forza del diritto, un nuovo modo d’essere tra i popoli nauti, un sentirsi uniti come fratelli per le vie del mare.
Si è giunti alla cima, sulla terrazza sospesa sulla storia e sul tempo; ma il vecchio Convento, nato con i Cistercensi di Fossanova e chiuso con i frati Cappuccini, è vuoto. Tra le sue sale e l’antico chiostro non vi hanno più dimora i monaci, né antichi corali risuonano nella volta della chiesa a ridestare gli echi della spiritualità. La vita nuova, tra queste mura, oggi è rappresentata dal popolo eterogeneo dei viaggiatori, per i quali Amalfi è stata, dal giorno della sua origine, il punto di transito obbligato, sì che in questi siti è un continuo “ricominciare daccapo”.
Ma in questo chiostro dei Cappuccini, come in quello del Paradiso e nell’altro di San Francesco, l’anima può ancora riappropriarsi dell’immaginario letterario, dei miti romani, degli splendori marinari, delle suggestioni gregoriane.
Narra una leggenda che in questo luogo raccolto e quasi nascosto da una lussureggiante vegetazione, approdò il forte Ercole per rendere alla terra il corpo senza vita della sua amata; e per immortalarne il ricordo, il mitico eroe fondò questa città cui diede il nome della sua donna: Amalfi.
Al di là della leggenda, la storia ci racconta di romani diretti a Costantinopoli e sbattuti su questi lidi da un naufragio. Anche se le prime notizierisalgono al 553 d.C., al tempo della vittoria di Narsete su Teia, in queste contrade non poche erano le ville e gli insediamenti di patrizi romani; i numerosi ritrovamenti fittili e quelli marmorei di urna, sono le testimonianze più certe di una presenza abitativa in questi siti. Non mancarono, certamente, le lotte perché Amalfi potesse affermare la sua presenza politica ed economica, come la ribellione dell’839 contro Salerno che sfociò nella elezione a capo di tal Pietro al quale fu dato il titolo di “Comes”.
Molto, però, si deve anche all’astuzia degli amalfitani che riuscirono a far crescere sempre più la città grazie ad abili mercanti che avevano impiantato fondachi un po’ ovunque approdavano le loro navi ed intrecciato una trama di un fiorente commercio in tutto il Mediterraneo.
Molto merito va anche ad un suo nobile figlio, Flavio Gioia, di Positano, che dotò le navi della Repubblica non solo di carte nautiche aggiornate, ma soprattutto di quel nuovo strumento chiamato bussola, che cambiò il modo di navigare, rendendo le rotte più certe e i tempi delle traversate più brevi.
A leggere la storia dei traffici amalfitani c’è da rimanere stupiti: l’attività commerciale fu sorprendente. Amalfi, infatti, aveva fondachi a Costantinopoli, Laodicea, Gaifa, Beirut, Bagdad, Tripoli, Tunisi, Cipro, Alessandria d’Egitto e persino al Cairo e in India. Ben quindi si poteva affermare che «sorta con la mercatura come Roma con le armi, Amalfi ebbe mezzi propri onde mantenersi nella sua indipendenza e ricchezza; e mentre parte de’ cittadini sosteneva la nazione con le armi, gli altri procuravano col commercio la strada alla ricchezza del paese».
In tal modo la città affermò anche una sua struttura politica indipendente e, nonostante il formale diritto di conferma degli imperatori d’oriente, si amministrava in piena libertà collegi e magistrati e batteva una sua propria moneta d’oro e d’argento, il tarì, accettato in tutti i mercati mediterranei e anche nei principati longobardi «nonostante la poca simpatia che avevano quei dinasti per la ducea di Amalfi».
Le cronache riportano che «il commercio marittimo aveva creato notevoli fortune» e Giuseppe Appulo affermò che «nessuna città tra X e XI sec. era più ricca di oro, argento, profumi, seta e stoffe preziose d’ogni sorta e che vi si incontravano ad Amalfi arabi, siculi, africani e perfino indiani».
Elemento importante della economia amalfitana furono anche i mulini per il grano, localizzati in quella gola che appunto ancora oggi viene chiamata “valle dei mulini”; parte di essi erano anche a Gragnano. Ai mulini del grano nel XIV sec. si affiancarono quelli per la carta.
Emblema della civiltà e della saggezza di questa città fu, senza dubbi, la raccolta delle consuetudini marittime raccolte nella famosa Tabula , propugnata dai naviganti amalfitani e accreditata tra le nazioni marinare dell’epoca.
Scomparsa nel XV sec., la Tabula Civitatis Malphe fu ritrovata a Venezia e portata dagli Asburgici nella biblioteca imperiale di Vienna; ma nel 1928 essa venne riconsegnata al governo italiano e da questi, nel 1930 ad Amalfi. Le tavole amalfitane, ricorda uno dei suoi figli illustri, Gaetano Afeltra, sono il più alto esempio di «antiveggenza giuridica marittima», in quanto prevedono e statuiscono tutto quanto interessa la navigazione, i rapporti del capitano con l’equipaggio e viceversa, nonché diritti e doveri dell’uno e dell’altro.
Tra l’altro contiene alcuni principi di previdenza sociale come quello dell’obbligo della società di far curare il marinaio o socio ammalato o ferito.
La struttura politico-amministrativa e la forte presenza del clero, testimoniata dalla presenza di numerose chiese e conventi, hanno garantito, per secoli, la crescita della città, la sua espansione e la potenza sui mari. Fu Pisa a dare il colpo del declino allo strapotere marittimo della prima Repubblica Marinara della storia; fu il maremoto del 1343 a distruggere l’abitato, le fortificazioni, i cantieri navali, i magazzini: gran parte della città era stata ingoiata dal mare.
Cinque anni dopo l’opera distruttrice del fato continuava sugli uomini con la terribile peste del 1348. Due grandi catastrofi che avrebbero cambiato la storia e il volto di questa città di mare. Due calamità descritte rispettivamente dal Petrarca e dal Boccaccio.
E così Amalfi e tutte le splendide cittadine della costa del suo territorio popolate, fortificate, ricche di palazzi sontuosi, ornati di affreschi, marmi, colonne, fontane, si avviavano a diventare modesti siti privi della ricchezza che veniva dal mare. Per loro fu giocoforza ritornare alle tradizionali occupazioni della pesca, dell’agricoltura, dell’artigianato.
Ma Amalfi, si diceva prima, è città del si “ricomincia daccapo”. Così la città con il passato splendido, carico di memorie storiche, entrò nell’immaginario culturale divenendo il luogo della letteratura europea, grazie ai tanti viaggiatori quivi giunti nel loro girovagare “pour le Royame de Naples”. Un immaginario letterario legato anche al santo patrono, a quell’Apostolo Andrea le cui spoglie mortali qui giacciono dal 1208, allorché furono trasportate dalla Terra Santa dal Cardinale Pietro Capuano.
Le ossa rilasciano una sostanza untuosa, chiamata “manna”, ritenuta miracolosa. Fu un vecchio pellegrino ad accorgersene nel 1304 e il fatto miracoloso non solo è ricordato dal Tasso nella “Gerusalemme Conquistata”, ma il benedettino Leandro Alberti così scriveva nel 1550: «Sono tenute le sagrate ossa di Sant’Andrea con gran venerazione quivi in Amalfi in un sontuoso tempio ove un sacerdote dona a ciascun pellegrino un’ampolla piena d’oglio (dimandata da’ cittadini “manna”) che esce sempre dalle sagrate ossa dell’Apostolo».
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E così, anche per questi prodigi religiosi, Amalfi si colloca come luogo letterario che fa sopravvivere in Europa la grandezza del ducato medioevale.
In un panorama così splendido ove nelle tiepide sere di primavera profumi ineffabili di zagare e di salmastro avvolgono e rapiscono l’anima e i sensi, non si può tenere il cuore al riparo della malia dell’amore. E tutto avviene naturalmente, senza sforzi e repentinamente: sembra quasi che nell’aria vi sia un magico elisir che spinge ad amare.
In una delle sue numerose novelle il domenicano Matteo Bandello racconta della duchessa di Amalfi, figlia di Enrico d’Aragona, rimasta vedova in giovane età, che si innamora del suo maggiordomo, Antonio Bologna sposato segretamente. Ma i fratelli della duchessa inseguono i due sposi e li assassinano insieme ai loro figli. La novella entra ben presto nella tradizione letteraria europea e viene ripresa dall’inglese John Webster e dallo spagnolo Lope de Vega.
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Poi è la scoperta dei viaggiatori del Grand Tour, spinti nel sud dello stivale nel loro desiderio di conoscenza diretta della classicità romana e ancor più di quella greca.
Ad Amalfi essi incontrano un mondo nuovo, che sorprende alcuni, ma non Richard Keppel Craven: egli confessava, non senza orgoglio, di aver fatto il suo viaggio «senza libri, mentre altri avevano echi di antiche culture». Così in quelle testimonianze di viaggio si incontra «un elemento comune, la non classicità di Amalfi, la sua posizione costretta tra i monti, la sua architettura definita “strana”, la sua natura “selvatica” che viene avvertita dai suoi visitatori con grande intensità e, qualche volta, con riserva. E così dalla sorpresa si passava piano piano all’ammirazione». Nella torre antica, posta all’ingresso della città a guardia delle invasioni saracene, si raccolse in sospesa meditazione di lavoro Henryk Ibsen, trasformando nel suo immaginario, quelle segrete stanze, divenute albergo, in “Casa di bambole”.
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Amalfi, luogo di chiostri ove sono racchiuse, tra colonnine tortili, le memorie di una città e della sua gente, abile nei traffici e nella furbizia diplomatica, ancora oggi si pone come città turistica, al centro di un lungo tragitto ove il viaggiare è dolce pur tra le tortuosità della strada costiera.
Ripensando ai luoghi della sua giovinezza, Alfonso Gatto appuntava in versi:
«…è strada di montagna: vi s’arrende la luce che nel trarla dosso a dosso ai suoi spicchi costrutti trova il fiore del lastrico deserto, la ginestra”.
È difficile sfuggire al fascino di Amalfi, così altera ed elegante, così aperta all’ospitalità, quanto discreta nel conservare segreti e passioni: «…il sonno nel riverso meriggio è già passione”.
Amalfi è paese di miti e di storia, ove i sogni fanno parte di quel “ricominciare daccapo” di un popolo marinaio un po’ nobile e un po’ pirata. Popolo di tenaci e caparbi uomini, che mai si arrendono e sempre riprendono la strada verso la meta.
Così fu per Luigi Amatruda che tenacemente volle ri-produrre “all’uso antico” con tecniche moderne la preziosità della delicata e soffice “bambagina”, la carta a mano d’Amalfi. Così fu per Andrea De Luca, emigrante in America, “Tipografo dell’Arcivescovo”, come indicava un’ampia insegna di bottega agli Arsenali; testardamente volle una sua tipografia nella città natale, amata e rispettata. Come rispettava, il buon don Andrea, gli uomini di studio e d’ingegno, gli artisti e i lavoratori. Di lui scriveva don Domenico Irace: «il mio tipografo è una personalità di primo piano nella vita dello scrittore, un compagno indivisibile, partecipe, quasi, del duro travaglio del pensiero». E caparbio fu anche Francesco Amodio (don Ciccio per gli amalfitani intimi), sindaco e parlamentare, uomo di grande rettitudine ed onestà, che volle con forza le annuali Regate tra le quattro storiche Repubbliche Marinare.
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Antico Convento Cappuccini, luogo di riposi eccellenti da cui si ammira la spuma bianca del mare sulla costa rocciosa e, al tramonto, lo sfavillio mosaicato del Duomo; qui Salvatore Quasimodo, sognando incontaminati cieli di poesia, scrisse: «forse ad Amalfi le vele cortesi della Repubblica, tavole di paziente e antica civiltà, battono ancora visibili-invisibili nelle ore di vento del piccolo porto»; testardamente volle una sua tipografia nella città natale, amata e rispettata. Come rispettava, il buon don Andrea, gli uomini di studio e d’ingegno, gli artisti e i lavoratori. Di lui scriveva don Domenico Irace: «il mio tipografo è una personalità di primo piano nella vita dello scrittore, un compagno indivisibile, partecipe, quasi, del duro travaglio del pensiero».
E caparbio fu anche Francesco Amodio (don Ciccio per gli amalfitani intimi), sindaco e parlamentare, uomo di grande rettitudine ed onestà, che volle con forza le annuali Regate tra le quattro storiche Repubbliche Marinare.