Il tema di cui mi occupo qui di seguito ho avuto già modo di trattarlo in altre occasioni. Lo ripropongo con l’ambizione di dare un contributo al dibattito, che è in atto sul ruolo e la funzione storico/politica del Grande Mare della Storia e dei miti, alla luce anche delle recenti tragedie della migrazione biblica che attraversa. Sono notizie di qualche giorno fa i naufragi e le morti di bambini innocenti, che si sono consumate nel mare di casa nostra, sulle coste della Sicilia. La mia riflessione parte da lontano, come ho già fatto altre volte su questo stesso giornale.
Il concetto di Mediterraneo può vantare molte definizioni, a cominciare da quella di Platone, che parlando del grande mare della storia antica scriveva: “Stiamo tutti intorno al mare come ranocchie intorno ad uno stagno”. Ma la definizione che consente una qualche appropriata analisi geografica, storica ed anche letteraria è quella di Bruno Etienne: “Il Mediterrano – egli scrive – è un continente liquido con contorni solidi ed abitanti mobili”. Ma questo continente liquido è stato teatro della grande storia e della evoluzione di straordinarie civiltà. Fu regno del mito, che gonfiò emozioni ai poeti, ed universo di ricerca che accese riflessioni ai filosofi, ma anche campo di battaglia di condottieri per accrescerne regni e potere, avventura e scoperta sulle rotte degli scambi commerciali. Ulisse ne fu, ed in parte ne è ancora, simbolo e modello per l’umanità inquieta di “curiositas”. Gli uomini di questo continente raramente sono stati e sono stanziali, quasi sempre migranti. Il nomadismo è una loro caratteristica. D’altra parte la migrazione è nella natura stessa del mare, che nell’accezione greca fu “pelagos” e “ponthos”: oceano sconfinato a pericolo di avventura/naufragio e ponte/via di comunicazione e sinergia feconda delle isole solide, delle sponde diverse ed antitetiche ad interconnessione di arcipelago nella miscela virtuosa della liquidità a levigare spigolosità di differenze. Liquidità come contaminazione multietnica a miracolo di meticciato culturale. Lo fu ieri, lo è oggi, il Mediterraneo delle partenze e degli approdi.
Partì Ulisse e ne contagiò di esperienze le opposte sponde vincendo la forza bruta degli uomini/pastori (Polifemo), la diffidenza violenta della primitività contadina (Lestrigoni), resistendo alla seduzione della malia improduttiva (Sirene), subendo volontaria violenza psicologica alle tormentate fasi dell’amore/innamoramento (Nausicaa), sentimento/tormento (Calipso), carnalità/dominio dei sensi (Circe), fedeltà/valori familiari (Penelope); si incantò a verginità d’aurore e a sogni laceranti di nostalgia dei tramonti; si specchiò nel riso delle stelle e seguì i percorsi della luna nelle notti serene e si imbufalì con il vento ringhioso nel ventre delle grotte e galoppò ardimentoso a cavallo di marosi fragorosi nei giorni di tempesta, metabolizzò fiori e frutti di agricoltura fiorente (nel giardino di Alcinoo), approdò sfinito e smemore, “bello di fama e di sventura”, alla sua Itaca per ricostruire regno e riformare agricoltura feconda con il remo e con la vanga, da sempre compagni/strumenti di lavoro dell’uomo del Mediterraneo che fu e resta marinaio di terra e contadino di mare.
Partì Enea e sulla rotta tracciata dagli dei cercò in approdi tormentati una patria nuova/antica e fondò un regno, che innervato sul passato si proiettò nel futuro, nel segno della pietas e della tolleranza. E fu il primo esempio della nemesi storica dei vinti, a rinascita gloriosa sulle macerie della sconfitta. A pensarci bene, la storia è fatta quasi sempre dai vinti più che dai vincitori, perché sono i vinti a conservare memoria di identità con voglia di esaltarla, anche se rinnovata ed arricchita dall’esperienza del dolore. Partirono i nostri Padri Greci e sperimentarono nuove rotte sui mari e, con il loro prezioso pantheon di eroi e dei, approdarono sulle coste della Sicilia e della Calabria; ad Agrigento, Siracusa, Segesta, Selinunte, Sibari, Crotone edificarono città fiorenti e templi maestosi e vi depositarono le loro memorie a culti universali. E qui da noi, in Campania, riecheggiarono dall’antro di Cuma oracoli a perforazione di futuro, a Paestum consegnarono ai secoli a venire miracoli di bellezza e di armonia nell’ambra scanalata delle colonne doriche e nelle pitture sepolcrali a viatico dell’aldilà e a Velia regalarono agli uomini del futuro guida feconda di Pensiero Antico.
Partì il messaggio rivoluzionario del Biondo Nazareno, uomo/dio, e gonfiò cuore, anima e pensiero e diede ali al cammino degli apostoli per creare un mondo di amore.
Partirono i monaci basiliani e cercarono rifugio sicuro in grotte di montagne e da laure ed abbazie irradiarono civiltà di lettere e fecondità di agricoltura e sapienza di artigianato con tecniche di nuove colture, con la regimentazione delle acque e pestando erbe della salute nelle farmacopee. Partirono i mercanti delle Repubbliche marinare e Marco Polo indicò le vie della seta e delle spezie e gli Amalfitani tornarono con la ricchezza della carta e l’orientamento della Rosa dei Venti. Partì Cristoforo Colombo e le caravelle vittoriose approdarono esperte di rotte per nuovi mondi. Partirono gli Arabi con in dono lo scrigno dei tesori di Alessandra e fiorì il meticciato della cultura andalusa; e con il contributo di Averroè ed Avicenna conoscemmo la produzione di Aristotele e Platone, che accesero di entusiasmo il lavoro paziente e sapiente di monaci colti nel chiuso delle nostre abbazie. E qui da noi nacque il più grande fatto di cultura dell’intero Medioevo, la Scuola Medica Salernitana, frutto dell’intuizione e della collaborazione di medici greci, romani, arabi e cristiani, figli meticci, tutti, della mediterraneità delle opposte sponde.
Sono queste soltanto alcune, ma significative schegge di una lunga temperie storica, che ha avuto come teatro il Mediterraneo e ne ha fatto un continente di paesi multipli in conflitto, spesso, e diffidenti, quasi sempre, tra di loro. In questo continente vasto, variegato e multiplo per razze e culture va esercitata la indagine/ricerca per riscoprire buona parte del nostro passato ad esaltazione di presente nel segno della tolleranza e della ricchezza umana e culturale della ibridazione. La dovrebbe fare, questa ricerca, tutta l’Italia Meridionale, ma innanzitutto Amalfi e Paestum che sono le città simbolo di approdo e snodo delle grandi civiltà sulle rotte del Grande Mare Nostrum. Lo dovrebbe fare Paestum, collegandosi storicamente e culturalmente alla Grecia. Lo dovrebbe fare Amalfi con una serie di gemellaggi storico/culturali, cominciando con Istanbul (Costantinopoli, Bisanzio), dove ebbe fondachi, chiese, palazzi e, addirittura, un intero quartiere), e dove un loro figlio, il Cardinale Capuano, trovò le Sacre Spoglie dell’Apostolo Andrea e le portò nella sua città di nascita. Lo dovrebbe fare Ravello come comune e come fondazione per quello che rappresenta nel mondo come città della musica e della cultura. Lo dovrebbe e lo potrebbe fare, organizzando una SETTIMANA DELL’AMICIZIA TURCO/AMALFITANA, d’accordo e in collaborazione con l’Ambasciata della Turchia in Italia e con la sponsorizzazione degli organismi confindustriali dei due Paesi, nonché dei relativi Istituti del Commercio con l’Estero e degli Organismi internazionali del Turismo. La settimana potrebbe chiudersi con una serata di gala di livello internazionale con un omaggio al Premio Nobel turco, Orhan PAMUK. Lo potrebbe e dovrebbe fare Paestum che storicamente è simbolo dell’approdo e snodo delle rotte euro mediterranee. Lo dovrebbe fare l’Italia come atto di solidarietà e di umanità che la storia le affida per fondere ed esaltare il grande meticciato della cultura tra i popoli che vivono sulle opposte sponde del Mare Nostrum.
Al giornalista/intellettuale spetta solo il compito di proporre e stimolare. Agli Amministratori Pubblici di Amalfi e costiera da un lato e di Capaccio Paestum dall’altro di trasformare le idee in progetti operativi. Spero che mi sia consentito quanto meno dare qualche contributo di idee e di pensiero, senza alimentare suscettibilità, sospetti e/o retro pensieri. Buon Lavoro!