Durante le feste di Natale ho ripreso fra le mani “Le città invisibili” di Italo Calvino, un autore che ha scandito i ritmi di lettura della mia vita negli ultimi 70/80 anni. Mi hanno colpito molto, rileggendole, alcune sue riflessioni che, forse inconsapevolmente, ho assunto a modello di esistenza e a sottofondo della mia evoluzione culturale autobiografica “ogni vita è una enciclopedia, una biblioteca, un inventario di oggetti, un campionario di stili, dove tutto può essere continuamente rimescolato riordinato in tutti i modi possibili”. Calvino individua, cioè, una affascinante metafora della conoscenza nella spinta della immaginazione a superare ogni limite, cogliendo la sostanza pulviscolare del mondo. La conoscenza del mondo richiede, infatti, la dissoluzione della sua compattezza per cogliere ciò che è infinitamente minuto e mobile e leggero. Questa acuta ed originale riflessione su Calvino di Nunzia Palmieri la si coglie soprattutto nell’articolato progetto delle Città invisibili: Le città e la memoria; le città e il desiderio; le città e i segni; Le città sottili, Le città e gli scambi, le città e gli occhi. Le città e il nome, le città e i morti, le città e il cielo, le città continue, le città nascoste. E Calvino ha dichiarato di aver composto un libro come un diario portandoselo dietro per anni e ricomponendone con amore i frammenti in un unicum.
Per una coincidenza tanto casuale quanto fortunata per qualche giorno ho alternato la lettura delle Città Invisibili con quella del saggio storico della Chiesa di San Pietro Apostolo a Capaccio capoluogo, scritto da Gaetano Puca, che me ne ha fatto omaggio. Sono, così, rimasto in tema calandomi, per testimonianza d’amore, nel territorio dove sono nato e che mi porto nell’anima. Quest’ultima lettura mi ha consentito di fare un viaggio a ritroso di memoria nel paese/città (Capaccio), che fu punto di riferimento per quelli della mia generazione, e non solo, nati e cresciuti sulle colline della kora pestana spalancate sul mare dei miti e della Grande Storia di Poseidonia, terra di approdo e di snodo delle grandi civiltà fiorite sulle rotte del Mediterraneo e, insieme, simbolo della potenza economica e culturale della Magna Grecia. E per l’occasione ho seguito lo schema di lettura e di riflessione suggerito da Calvino, privilegiando soltanto alcune delle sezioni analizzate nelle “città invisibili”, ed esattamente. Le città e la memoria, le città e il desiderio, le città e i segni, le città continue, le città nascoste. Ho individuato, così, per Capaccio, tre o quattro nuclei narrativi: 1) La chiesa parrocchiale di San Pietro, che fu anche Cattedrale di una diocesi vasta e potente e che originariamente era ubicata in Piazza Orologio e che, crollata nel XIX secolo, fu ricostruita un po’ più su e che conserva un monumento/ricordo di Agostino Odoardi, che vi fu vescovo dal 1724 al 1741. Partendo da lui e dalla parrocchiale riscopro Capaccio, città della memoria, che mi rievoca belle pagine di storia religiosa scritte tra chiesa parrocchiale/cattedrale e convento con il protagonismo attivo di vescovo, canonici, padri guardiani e cappuccini tra collaborazione apparente e rivalità sotterranee per il governo delle anime e, a volte, qualche interesse meno nobile che cresceva in carsismo psicologico sotterraneo per esplodere con il pretesto della divisione del ricavato delle questue e dei “responsori”. Intorno alla chiesa c’era e c’è ancora la Piazza dell’Orologio con il campanile (inizi del ‘900) che ha scandito le ore della storia della comunità e ne ha sottolineato bisogni, attese, speranze e conseguenti battaglie civili e politiche, dando voce a rivolte come quella organizzata e guidata da Costabile Carducci eroe eponimo della Rivoluzione Cilentana del 1848 e la cui casa natale, a poche centinaia di metri dalla chiesa, aspetta di avere la ufficializzazione della sacralità di un museo vero o quella/e dei Paolino (Gaetano che con la cooperativa “La Falce” educò ed esortò i contadini al riscatto dalla subalternità dei latifondisti) e soprattutto del figlio Salvatore, che, ad un secolo di distanza dalla rivolta di Costabile Carducci, guidò i contadini di Capaccio e dei comuni della kora all’assalto dei latifondi con conseguente Riforma Agraria, che, anche se monca, modificò in un decennio storia, costumi, geopolitica ed economia di un vasto territorio più di quanto non avessero fatto tutti i secoli precedenti. Intorno alla Parrocchiale, nel raggio di pochi chilometri quadrati, si sviluppano i diversi rioni: Monticello, Lauro, Santuliveto. Santa Rosa. ‘A Chiazza, ‘U Cunvento, Casa Crapolla, ognuno con una propria identità e con i Palazzi Gentilizi dei Bellelli, dei D’Alessio, dei De Marco, dei Madia, degli Arcione con portali e scale in pietra lavorata, con androni e scalinate monumentali per salire ai piani superiori, a cui era impedito quasi sempre l’acceso ai comuni mortali e che disponevano di finestre con davanzali in pietra viva, che si spalancavano, e alcuni si spalancano ancora, a cielo aperto, tra vicoli, slarghi, archi, da dove, spiando nei giardini segreti, è possibile ancora cogliere i “segni” di una città potente, che ha accolto nei secoli personaggi che hanno fatto la storia dell’Italia e dell’ Europa, primo fra tutti Federico II di Svevia che represse nel sangue la Congiura dei Baroni e ne diede l’annunzio al mondo proprio nel rione Santa Lucia di Capaccio con il suo fedele e colto segretario Pier delle Vigne, che, come dice Dante, “tenne ambo le chiavi del cuor di Federico”: la giustizia e pietà. E, poi, all’esterno di uno dei palazzi Bellelli c’è ancora l’arco di Murat che s’apre come ferita ardita in lunga prospettiva tra vicoli stretti che separano case e che nel contempo ne facevano e ne fanno uno spazio collettivo all’aperto animato dai giochi dei bambini e delle conversazioni, il più delle volte cariche di “inciuci” allusivi delle donne alle prese con i lavori di ricamo con il tempo bello. Quell’arco fu costruito per accogliere il re di Napoli, che impersonò il riformismo del decennio francese nel Cilento. Qui hanno voce ed anima i luoghi e a chi sappia leggere il passato. La storia la si coglie negli slarghi, sotto gli archi e nei vicoli, dove è possibile cogliere ancora sulle ali del vento che sibila tra le case e, nei giorni di bufera, batte irato alle finestre e narra l’arroganza dei signori asserragliati nei propri palazzi e nelle chiese dove le dame ingioiellate, ma compunte, andavano a pregare, a confessarsi e farsi perdonare da Dio desideri carnali di evasioni quasi sempre sospirati e qualche volta fugacemente e furtivamente realizzati. Qui nei “bassi” a margine di strada figliava miseria il contadiname dei salariati angariati e spolpati dai latifondisti. Qui invecchiavano tra gli acciacchi gli artigiani bravi, laboriosi e creativi, sognando l’alba di tempi migliori. L’ultima testimonianza romantica della “barberia del Cavalier Marino!” Di qui fuggirono i figli dei baroni e a Napoli, capitale del regno, che gareggiava con Parigi, dilapidavano ai tavoli da gioco o nelle alcove di donnine compiacenti (ballerine di varietà dalla “mossa” invitante e coinvolgente), le sostanziose risorse di famiglia; di qui sognarono atti coraggiosi di eroismo i figli “degeneri” (penso a Gennaro Bellelli) dei borghesi danarosi; qui restarono e lottarono i riformisti del futuro sognando progetti che modificassero nel profondo l’esistente a proiezione di futuro. Qui appassirono nelle comodità improduttive delle rendite parassitarie molti figli di nobili e borghesi. Qui ammuffiscono belle pagine di storia tra vicoli spesso maleodoranti e case cadenti sotto lo sguardo complice delle tante amministrazioni comunali che si sono susseguite nel corso dei decenni. Di qui sono fuggiti e, purtroppo, fuggono ancora per emigrare al Nord o all’estero tanti giovani, figli per lo più di lavoratori e di artigiani e/o di piccoli imprenditori in cerca di futuro per mettere a frutto competenze e saperi conquistati in anni di studio. Io questo centro storico che langue nel degrado e reclama da sempre una giusta ed opportuna visibilità nel nome e nel segno della storia l’ho attraversato spesso a passi lenti e con la morte nel cuore e mi sono incantato al suo cielo con stelle e luna che dalla finestra del Soprano inargentava i tetti rossi delle case con più di una tegola smozzicata e che si insinuava tra i vicoli dove i gatti in amore laceravano il silenzio a riparo di orti accoglienti giù giù verso Monticello che rifrangeva ombre sul Sottano. Ed ho ripensato alle “città invisibili” di Calvino, ed esattamente a: Le città e la memoria, le città e il desiderio, le città e i segni, le città continue, le città nascoste” ed ho sognato per Capaccio Capoluogo una stagione nuova in cui amministratori responsabili, motivati e capaci, imprenditori generosi e feriti nell’orgoglio per dare al territorio un futuro migliore nel segno di una giustizia distributiva per risorse ed opportunità di lavoro, ad una società civile nella sua totalità capace di riscoprire, esaltare, dare prove concrete di impegno civile, soprattutto nella componente giovanile, al gruppo degli intellettuali, che non mancano, di mettere a servizio della comunità intelligenze, competenze ed esperienze maturate nel territorio o altrove, nella consapevolezza che la città risorgerà ai vecchi splendori se tutti insieme daranno il proprio contributo con lealtà e generosità, accantonando gelosie e risentimenti, consapevoli che una comunità che non ama il proprio passato ha un precario presente e non ha futuro. Non so se ho l’autorevolezza per fare questo appello, ma so di doverlo fare, qualunque ne sia l’esito con amore profondo per una città che ammuffisce nel degrado e sfregia impunemente belle e straordinarie pagine della sua grande storia. E spero tanto che non sia considerato un intruso ed uno straniero solo perché nato a qualche chilometro di distanza, in un paese che il suo centro storico lo ha risanato da tempo e lo ha reso vivibile.