Di L.R.
Parlare di Moro è diventato un argomento ostico soprattutto per chi cerca la verità sul suo assassinio. Più passa tempo e più emergono i dubbi su alcuni esponenti delle istituzioni, da qui la necessità di far luce, altrimenti in situazioni analoghe ognuno è in pericolo. L’Operazione fritz, “ciuffo bianco” in codice, durò tre minuti. I due milioni di pagine prodotte della magistratura relative al caso consentono di fare capolino nel buco nero dal quale dovrebbe finalmente germinare la verità.
A noi interessa ricordare il clima che si era creato intorno alla figura di Moro, le avvisaglie prima del 16 marzo. Già nel 1974, a Washington le parole di Kissinger, che invitava Moro a mettere da parte il suo piano politico di collaborazione tra partiti in Italia, suonano tragicamente minacciose. Una politica sensibile allo “smart power”, del quale si parla oggi con crescente interesse, non poteva essere compresa da un realista come Kissinger: gli USA avevano un timore panico dei comunisti e l’URSS non intendeva perdere il primato del socialismo reale anticipando la caduta del muro. Non è un caso che a via Fani, il 16 marzo 1978, fossero presenti esponenti ed informatori di tanti servizi segreti! Nel 1975 alcuni titoli minacciosi apparsi su OP di Pecorelli del tipo “Il ministro deve morire” giustificano alcuni interrogati, come la frase sui muri della capitale nel novembre del 1977, dopo la gambizzazione: oggi Publio Fiori Publio, domani Moro”. Nello stesso mese è Moro a commentare: “ci faranno pagare caramente la nostra linea politica ma dobbiamo farlo nell’interesse dell’Italia”.
Non spetta a me ricostruire la vicenda, ma certamente appare confermata la sensazione che il sangue dei martiri è sempre fecondo se il contadino proprietario della Renault rossa, dove fu rinvenuto il corpo di Moro, ha rifiutato i 300 mila euro offerti dalla casa produttrice ritenendo che non ci si debba arricchire con un morto ed ha regalato l’automobile allo Stato, un cimelio per non dimenticare. La stessa Faranda, pentitasi, ha dovuto riconoscere che, invece d’impegnarsi per la battaglia delle idee e cambiare il mondo, alla fine le BR hanno lasciato sangue e morti dappertutto.
Da queste brevissime premesse deriva il desiderio di comprendere cosa Moro ha fatto e da dove scaturisce la sua forza morale. Durante la cerimonia per il centenario della nascita, lo scorso 23 settembre, il presidente Mattarella ha esaltato l’impegno costante nel confrontarsi con la fatica della democrazia, la sua vocazione all’intesa, l’azione di mediazione indisponibile ad un compromesso al ribasso. Lo stesso Moro ha sintetizzato i risultati di questa sua azione quando dichiarò agli esponenti del PCI: “Quello che voi siete noi abbiamo contribuito a farvi essere e quello che noi siamo, voi avete contribuito a farci essere”.
Oggi il rischio è attualizzare la sua figura deformandone il pensiero e dimenticare che egli è stato percepito dai politici come un guastatore, un inquinatore alla ricerca di prospettive per un nuovo comunismo. Storici come Gabriele De Rosa hanno asserito che non è stata raccolta la sua eredità politica, che é prima di tutto culturale: una intelligenza critica per riflettere sullo sviluppo della società, sulla modernizzazione, fatto nuovo in Italia, cresciuta e, quindi, bisognevole di altre strutture e di una riforma dello Stato.
Ai docenti del Tasso che hanno organizzato il seminario su Aldo Moro il 26 settembre facendone oggetto di riflessione nel corso di aggiornamento vanno i complimenti per aver scelto un tema così complesso per le molteplici implicanze e di estrema attualità per i risvolti. Come iniziativa del mondo della scuola è anche il miglior omaggio e un doveroso gesto di riconoscenza per Moro ministro della Pubblica Istruzione. Dopo Coppino, che rese obbligatorie le elementari, egli nel 1962 ha fatto la stessa cosa per le medie, ritenendo l’istruzione lo strumento che consente a tutti di farsi valere, vera occasione di riscatto sociale. Moro era talmente sensibile a questi aspetti da convincere la Rai ad organizzare una trasmissione di successo che ha segnato un’epoca. Il maestro Manzi col suo “non è mai troppo tardi” ha consentito a tre milioni di Italiani d’imparare a leggere e scrivere in un periodo che contava appena il 5% di laureati nel paese.
A questa sensibilità egli ha affiancato il grande impegno culturale, iniziato già nel 1943, quando collaborava al periodico clandestino di Bari “la rassegna”. L’argomento da lui preferito e per il quale più si è impegnato trova riscontro nel titolo di un articolo: Ogni persona è un universo. La singolarità irripetibile di ogni individuo protetta dall’aura del personalismo lo vede impegnato nel 1946 alla Costituente con una precisazione circa l’uso di un termine collegato al tema dei diritti. Anche da questo punto di vista emerge ancora una volta la sua attualità se si fa riferimento allo stucchevole dibattito sulla riforma costituzionale che ci affligge da mesi. Egli propone di correggere il termine presente nello Statuto Albertino, la legge fondamentale ancora in vigore e che prendeva spunto dalle Carte per concessioni reali. Per Aldo Moro i diritti della persona alla salute, all’istruzione, alla libertà, all’eguaglianza non sono frutto di una concessione, che può essere revocata come avevano appena sperimentato gli Italiani durante il regime, ma vengono riconosciuti come inalienabili proprio perché la persona viene sempre prima del cittadino.
Alcuni spunti di riflessione possono essere dedotti dalle lettere scritte dal carcere, come la frase riportata nella locandina del convegno: “Questo paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rileverà effimera se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere”. Egli è consapevole che “La verità è più grande di qualsiasi tornaconto, è sempre illuminante e ci aiuta ad essere coraggiosi”. Nell’orientare la sua azione politica ricorda che “Destino dell’uomo non è realizzare pienamente la giustizia ma della giustizia avere sempre fame e sete”, evocando il discorso della montagna.
Queste salde convinzioni consentono a Moro di operare per allargare gli spazi della democrazia. Nell’azione politica e di governo coglie di dentro i fenomeni sociali con una capacità di analisi superiore agli specialisti e a tanti politici. Egli non si chiude alla comprensione, non innalza barricate per difendere il Palazzo, sempre attento ad aprire la mente ai compagni di partito e con coraggio valutare insieme i mutamenti.
È pronto a riconoscere il primato della politica, ma non lo pone al di sopra di tutto e tutti perché volontà popolare e la maggioranza degli elettori non giustificano mai un potere arbitrario. Infatti, per Moro la politica è un atto di consapevolezza, di fiducia nel proprio compito, ma più in fondo esiste una ragione, un fondamento ideale, una finalità umana per i quali ci si costituisce in potere e lo si esercita. Solo l’accettazione incondizionata di una ragione morale consente di sviluppare con coerenza il patrimonio d’idealità conferendo concretezza agli impegni.
È il Moro cattolico, che fa dell’ispirazione religiosa, sempre presente nella sua vicenda umana e politica, lo stimolo per porre attenzione alle “cose nuove”, prestare costante fiducia nel dialogo, ricercare ciò che unisce e non sentirsi appagati fin quando non si son trovate soluzioni che assicurino libertà e tutelino la dignità di ogni uomo. Egli considerava l’esperienza cristiana un motore di mutamento spirituale e sociale, come si legge sulla targa del rifugio “A. Moro” della Guardia Finanza a Bellamonte di Predazzo: “noi non vogliamo essere gli uomini del passato, ma quelli dell’avvenire, il domani non appartiene ai conservatori e ai tiranni, appartiene a degli innovatori attenti, seri, senza retorica e quel domani appartiene anche alla forza rivoluzionaria salvatrice del cristianesimo, lasciamo che i morti seppelliscono i morti, noi siamo diversi, vogliamo essere diversi dagli stanchi sostenitori di un mondo superato”.