Di recente il settimanale ha dedicato un numero ai sacerdoti che operano nel nostro territorio. Alcuni sono stati intervistati e sono state descritte le caratteristiche della religiosità in tanti piccoli borghi dove per il passato s’iniziava a respirare l’odore dell’incenso fin da piccoli grazie alle nonne che accompagnavano i nipoti nelle cappelle o nelle chiesette del paese. Qui avveniva il primo incontro con la pratica religiosa ed a prevalere erano modalitàprivate e personali, anche se gli interrogativi posti ancora mantengono un respiro comunitario. Di queste esperienze di religiosità agreste è rimasto ben poco nei giovani, nel migliore dei casi un coacervo di dubbi. Molti non si riconoscono più in una fede aprioristica che determina pratiche per inerzia e genera comportamenti ipocriti. Spesso a prevalere è un estetico ricordo generato dalla magia dei riti; tuttavia, soprattutto oggi per il diluvio d’incertezze e il grumo di solitudine che fa annaspare la speranza la religione appare sempre meno una questione dogmatica per emergere nella cultura civile ponendo domande sul senso della vita alle quali occorre trovare risposte.
Diffuso è il bisogno di formazione e si sente la necessità di fare esperienza di percorsi seri per leggere la propria esistenza alla luce della Bibbia. Di conseguenza si sollecita ancora l’azione di preti adeguatamente formati, capaci di aiutare nel pellegrinaggio verso la luce, compagni di viaggio per riscoprire il sapore della vita ed imboccare la strada della serenità. Per espletare questa funzione i preti devono conoscere il territorio abitato da famiglie e da giovani alla ricerca di valori in un contesto difficile, segnato da contraddizioni di ordine morale e sociale. Occorre perciò, comprendere la risposta data dalla chiesa, la sua capacità di aiutare individui precari negli affetti, nel lavoro, spesso vittime delle lusinghe del guadagno facile, specchio di un caos sociale sempre più evidente; essere pronti a sostenere tanti allo sbando, chi non arriva alla fine del mese, chi delega o rinuncia ad educare i figli.
La testimonianze di sacerdoti che operano nel territorio riportate da “Unico” confermano nei fatti quanto sollecita il papa. Si tratta d’individui che non nascondono la fatica di superare le difficoltà personali, determinate anche dalla consapevolezza di avere coscienza di un tesoro liberante e vitale come il Vangelo ed incapaci di trasmetterlo adeguatamente ai giovani perché privi d’idonei canali comunicativi. Sanno di dover ascoltare senza preconcetti ed accettare anche le contestazioni determinate dalle reazioni all’ipocrisia. Chi veramente s’impegna non ha remore nel vivere la propria esperienza giovandosi della condivisione di amici che con loro percorrono la stessa strada, fanno tesoro delle gioie e riconoscono l’importanza del sostegno comunitario per superare le difficoltà. Un prete veramente impegnato è capace d’intessere molteplici relazioni e così non è mai solo perché partecipa della stimolante e feconda esistenza di una dinamica comunità.
Diventa rilevante l’impegno nel partecipare alla formazione dei preti; invece risulta sterile la semplice denuncia, come capita di leggere in alcuni fogli che si stampano anche nel Cilento. A questo proposito risolutiva diventa la linea di azione che Papa Francesco ha riassunto il 7 ottobre 2017 parlando ai partecipanti al convegno sulla Ratio Fundamentalis. Egli ha affermato che la formazione sacerdotale dipende in primo luogo dall’azione di Dio nella nostra vita e non dalle nostre attività, perciò bisogna avere il coraggio di farsi plasmare dal Signore, essere argilla nelle mani del vasaio (Geremia 18,1-10). L’immagine aiuta a comprendere come la formazione non si risolva in un aggiornamento culturale o in sporadiche iniziative; è un lavoro che dura tutta la vita e presuppone il distacco da comode abitudini, l’abbandono di rigidi schemi mentali per superare la presunzione di essere già arrivati. A queste condizioni il Signore plasma, altrimenti il prete rimane spento, si trascina nel ministero per inerzia e non manifesta vero entusiasmo per il Vangelo, né passione per il Popolo di Dio.Questa situazione ha delle gravi ripercussioni sulla comunità perché i preti sono anche gli aiutanti del Vasaio. Occorre inoltre ricordare che la vocazione nasce e si sviluppa nella Chiesa e le mani di chi modella l’argilla operano attraverso il primo formatore che in diocesi è il vescovo. La Ratio lo ritiene «primo responsabile dell’ammissione in Seminario e della formazione sacerdotale» (n. 128); se egli non “scende nella bottega del vasaio” e non collabora con l’opera di Dio risulta difficile disporre di sacerdoti ben formati. Inoltre, la cura per le vocazioni presuppone una vicinanza carica di tenerezza, una caritatevole attenzione verso la vita dei preti, la capacità di esercitare discernimento.
Una diretta responsabilità va assegnata anche al Popolo di Dio. Il travaglio del suo quotidiano, le sue domande di senso, i suoi bisogni possono trasformarsi in un grande tornio per plasmare l’animo sacerdotale sensibile a queste attese, anche quando sono accompagnate da resistenze e incomprensioni. In mezzo ai fedeli, vera scuola di formazione umana, spirituale, intellettuale e pastorale, il prete realizza a pieno la propria vocazione se rimane col Signore sul monte per rinnovare la memoria della chiamata e a valle con i fedeli offrendosi come pane nutriente e acqua che disseta. Così, “passando e beneficando”, egli realizza la sua formazione permanente fuggendo da una spiritualità senza carne ed evitando impegni mondani senza Dio e la Chiesa locale può disporre di preti capaci di annunciare il Vangelo con entusiasmo e sapienza, accendere la speranza in animi che a volte sembrano lucerne fumiganti, generare la fede in contesti che tendono a desertificarsi.