Ieri pomeriggio ho partecipato al “Linea d’ombra Festival” di Salerno, bellissima rassegna alla ventinovesima edizione, stando seduta nella sala del piccolo teatro di Porta Catena, a godere della proiezione e della premiazione dei cortometraggi “Storiella di donne e lupi” di Giulia Pandolfini, “The sprayer” del regista iraniano Farnoosh Abedi, “Appuntamento con la luna” di Gabriele Angrisani.
Le immagini condensavano temi quali: la donna, vista in metafora come un lupo su cui si accaniscono branchi di siacalli; la devastazione portata da un esercito di soldati animati, spruzzatori di morte, di cui uno si incuriosisce per una piantina verde oggetto iconico del cambiamento; la corsa di un uomo per raggiungere la foresta, sdraiarsi a terra e provare la sensazione benefica di solitudine, guardando la luna in alto, nel buio.
Mi scuso per questa mia esemplificazione, una sola, magari, delle interpretazioni possibili.
Davvero tutti e tre i cortometraggi mi hanno tenuta incollata alla poltrona e, uscendo dalla sala, portavo con me la forte ammirazione per le giovani leve che con la loro creatività scavano nei luoghi dell’anima, trasportando in pochi minuti, con poche immagini, messaggi che oggi sono in ombra, prevaricati dalle luci false del successo, dei soldi, dell’arrivismo.
Mi sono spostata poi alla vicina Sala Pasolini, dov’era appena cominciata la tavola rotonda sul tema “Economia, cinema e territori”, con relatori di prestigio (Giuseppe D’Antonio Direttore artistico, Camillo Catarozzo presidente della BCC di Battipaglia e Maurizio Gemma, Direttore della Film Commission Campania) che hanno illustrato l’impatto economico, turistico e culturale della filmografia sul territorio della Campania. Ogni singolo intervento era interessante, ma quando si è passati alla proiezione del film documentario “A Chiana” di Andrea D’Ambrosio, allora si sono riattivate le cellule dell’emozione, già solo alla presentazione.
Le immagini di solito fanno orgoglio, sensazione di appartenenza al territorio, gettano ombre di colpevole noncuranza del vissuto, proprio o altrui. Per me, poi, le immagini di ritorno alla chiana di un emigrante sono state esplosive nel cervello, rinnovandomi la sensazione del ritorno “definitivo” di mio padre, nel Cilento da cui era partito, con parole simili a quelle ascoltate. Lui mi raccontava spesso della Germania, ma soprattutto di cose lontane nel tempo, del dopoguerra e dello sbarco degli alleati, dei tabacchifici distrutti dalla guerra, della bonifica della pianura come un evento grandioso, tutti fatti riportati con maestria nel film con le immagini dell’archivio “Luce”.
Mio padre allora era ragazzino, al seguito di suo padre per badare al gregge di pecore che svernava alla “Chiana”. Mi diceva che i ragazzini come lui si piantavano di fronte ai soldati per avere una tavoletta di cioccolato, che un suo fratello più grande e più insolente li guardava dritto in faccia e sbarrava il passo, fino a che non scucivano anche una sigaretta, e poi un fiammifero. Oppure che di notte, capito che erano bravi, andavano a rubare le gomme delle Jeep facendole rotolare nelle canalette, per farne suole di scarpe. Diceva che i soldati un giorno lo aveva voluto fotografare con una pelle di capra sui calzoni e che lui si vergognava, non voleva.
Aveva le lacrime agli occhi quando lo raccontava, per quella nostalgia data dall’età e dal senso di smarrimento che prende tutti, al pensiero di aver trascorso la vita e di avere ancora uno scrigno di memoria pieno.
Raccontare perciò, con immagini o con parole, non è nostalgia, è una meraviglia di cui ringrazio il regista: è quel bisogno di umanità che va al di là del successo negato o ricevuto, è il bisogno di lasciare agli altri tracce di quel che abbiamo nel Dna, impastato di questo territorio che magari denigriamo fintamente, ogni giorno, e poi quando lo vediamo raccontato, pieno di bellezza e di storia, ci inorgoglisce, perché ne siamo parte.