di Monica Acito
Tante sono state le parole che si sono spese circa la questione relativa alla Cantina Sociale “Val Calore”, tante sono state le opinioni formatisi e i dibattiti che hanno preso piede negli ultimi periodi.
E’ innegabile che la questione sia quantomeno complessa e variegata, sembra quasi che non vi sia un appiglio dove potersi aggrappare per fare un po’ di chiarezza e sciogliere i nodi , sempre più intricati, che attanagliano questa vicenda: è proprio a tal proposito che abbiamo deciso di contattare Rosa Pepe, del CRA-ORT di Pontecagnano, per tentare di avere una visione più chiara di quello che sarà il destino della Cantina Sociale.
Quale sarà la sorte della Cantina? E soprattutto, che impatto hanno avuto le sue vicissitudini sulla comunità e sulla fascia della popolazione degli agricoltori, la fetta di comunità più vicina agli intenti e agli scopi di quest’ultima?
Innanzitutto , vi è una sola certezza, come afferma la signora Pepe: si sta aspettando la messa all’asta della “Val Calore”, e i tre commissari nominati dal Ministero dello Sviluppo Economico tre anni fa.
Per quanto riguarda le considerazioni in merito all’attesa della messa all’asta, è doveroso ricordare le origini e le radici più recondite della “Val Calore”, che è stata fondata dai contadini, dagli agricoltori della nostra valle, che hanno da sempre creduto in questo progetto, pensando di poter riversare in esso le proprie aspirazioni e far valere così i propri diritti. Se la “Val Calore” è fallita, ciò è avvenuto, stando a ciò che dice Rosa Pepe, per pochi soldi.
La costernazione più grande che affligge tutta la comunità scaturisce proprio da quella sensazione di privazione, dal dolore di vedere il bene di tutti piombare nelle mani di una singola persona: dalla collettività al privato, dalle mani sporche di terra dei contadini all’oblio totale. E’ questo lo sgomento che si propaga a macchia d’olio per tutta la comunità: il tonfo sordo dell’assenza, della privazione, della morte di una creatura del popolo, sentita e voluta dai contadini, che con molti sacrifici hanno diluito fatica con sudore per far crescere questo progetto dal sapore collettivo.
Ovviamente la comunità avrebbe desiderato un intervento pubblico di spessore maggiore, un’azione più energica e vigorosa per tentare di restituire questo progetto al popolo: si sarebbe potuto giungere a un accordo di tipo pubblico e privato, magari creare un’altra cooperativa con la partecipazione dei vari soci per poter integrare i soldi che spettavano loro. Da quando la “Val Calore” ha chiuso i battenti, si è registrato (oltre al senso dilagante di mortificazione e sgomento) un aumento dell’indice di immigrazione a Castel San Lorenzo, proprio perché è venuto meno il punto di riferimento più importante nonché punto nevralgico e centro propulsore.
Se i risultati dell’asta decreteranno la vittoria di un privato, tutte quei piccoli residui di speranze e aspettative moriranno inesorabilmente: il Ministero dello Sviluppo Economico e il Ministero delle Politiche Agricole avrebbero potuto, secondo la signora Pepe, muoversi diversamente e procedere in direzione di un accordo tra pubblico e privato, mentre invece ora non si può far altro che aspettare.
Forse col fiato sospeso, forse no. Forse con un minimo di speranza, o forse no. Ma in fondo, a cosa serve sperare? A cosa serve sperare e nutrire sciocche e banali speranze se i sacrifici di un nonno, di un padre, di uno zio, valgono quanti i vermi nel terriccio, quanto le istituzioni, per l’ennesima volta, non danno voce a chi ha nutrito la terra e se n’è preso cura? Chi ha nutrito la terra è la voce più importante del nostro territorio, che di terra è fatto e di terrà vivrà e morirà.
Attendiamo gli sviluppi della vicenda, sperando di preservare quelle mani sporche di sangue e fatica che da sempre hanno preso a pugni, accarezzato e cresciuto le nostre terre e le nostre esistenze.