di Ottavia D’anseille Voza
Nel trenino da Poseidonia verso le Calabrie (quello che attraversa tre regioni con tre stazioni) incontro il carissimo amico Giovanni Wilkens Desiderio che a 93 anni se ne va a Vallo della Lucania, con la sua abituale busta di tavolette dipinte, a curare le fasi di chiusura di una sua mostra.
A casa mia conservo parecchie sue opere, alcune delle quali commissionate sulla base dei miei racconti dei paesaggi. Paesaggi lineari, disegnati su tavolette strette e lunghe, come avremmo voluto percepirli, oltre il naturale angolo visivo di noi umani.
Quando mi capita di incontrare Giovanni gli chiedo di parlarmi del periodo in cui decise di fare “il pittore” invece di tutto il resto delle cose che si potevano fare in un paesino del sud Italia negli anni trenta.
E sempre quello ha fatto. Niente altro. “Pittore purissimo”, cosa che non esiste quasi più, perché oggi tutti fanno qualche altra cosa per campare.
Gli ho raccontato di quando ho visto una sua tavoletta della metà degli anni cinquanta al museo di arte contemporanea di Linz, in Austria. Manco lo sapeva.
E Giovanni mi ha parlato di quando, da giovanissimo, “portava la borsa” – roba assolutamente diversa dalla moderna accezione negativa che ora abbiamo del “portaborse”, perché costituiva la prima fase di appropriazione di strumenti e di mestiere, al di la di ogni logica leccaculistica – di F. Krauss ed Herbig, lui meno che ventenne negli anni quaranta.
E poi delle sue frequentazioni tedesche, del suo periodo in cui entra stabilmente in contatto con artisti come Oscar Kokoscha (cose documentate, non millantate) e poi della Roma degli anni cinquanta e sessanta, con le abituali sue considerazioni sui prezzi dei quadri, sulla povertà dell’artista e sulla estrema agiatezza delle brevi stagioni in cui si entrava in contatto con attrici ed attori, principesse russe e petrolieri americani.
Perché Giovanni è così, è l’unico pittore “di mestiere” che io abbia mai conosciuto, gente di un’altra epoca, poco avvezza alle seghe mentali e di una spontaneità espressiva disarmante.
Giovanni mi saluta alzandosi una stazione prima della sua destinazione, ed in questo percepisco la sua dignitosissima e razionale battaglia contro l’annebbiamento che a quella età è cosa normale, come quando si ha la necessità di scandire bene le parole in una stanza rumorosa. Quando superi i novant’anni la senti questa necessità di scandire tutto, i ritmi del corpo e della mente, per conservare la lucidità, se hai la fortuna di poterlo ancora fare. Me ne accorgo con mia madre.
Ma la cosa che mi sorprende di più di Giovanni, oltre alla sua lucidità, è l’entusiasmo che conserva intatto.
Ed è ancora lo stesso ragazzo che spiava nelle borse di cuoio duro di Krauss e di Herbig, per scoprire cos’era la china, com’erano fatte le penne, e tutti gli altri meravigliosi strumenti che consentivano di trasportare le sensazioni su tele e tavolette.
Ora mi dice che deve regalarmi una tavoletta del suo “nuovo periodo”, e che sta sperimentando sulla tela non so cosa, che ha dedotto da pergamene giapponesi e totem africani.
Non so cosa significhi, ma se a 93 anni metti sulla tela cose di questo tipo, e me le racconti pure, sei un grande.