di Massimiliano De Paola
Le chiese, le masserie e le case antiche, ma anche gli edifici pubblici, le palazzine e le villette costruite sotto la spinta di un timido benessere. Il terremoto non fece sconti. In un minuto, alle 19,35 di domenica 23 novembre
1980, devastò paesi, fece 2.700 morti accertati, novemila feriti e centinaia di migliaia di senzatetto. La scossa letale toccò il 9° grado della Scala Mercalli, sviluppando una potenza energetica pari a quella – calcolarono gli esperti – di quindici bombe atomiche del tipo usato per distruggere Hiroshima: una carica di 35 milioni di tonnellate di esplosivo.
Il teatro della catastrofe è la dorsale appenninica tra l’Irpinia e il Potentino con epicentro individuato in un’area a 100 km da Napoli, trenta da Potenza e venti a nord-est di Eboli ed un’espansione su un territorio di 15.400 kmq sul quale sorgono 466 comuni e risiedono cinque milioni di abitanti, delle province di Avellino, Salerno, Napoli e Potenza.
Ma sono i paesi-presepe delle zone interne, i più poveri ed emarginati, ad essere travolti: Lioni, Teora, Balvano, Sant’Angelo dei Lombardi, Conza, Valva, Colliano, Laviano, Pescopagano.
Manlio Rossi Doria, meridionalista formatosi alla scuola di Giustino Fortunato, aveva definito quelle comunità con la metafora dell’“osso” per caratterizzarne la condizione di arretratezza in contrapposizione alla “polpa” delle prospere aree costiere. L’“osso”, dopo i terribili 90 secondi di quel 23 novembre, divenne un immane olocausto.
All’improvviso calò una nebbia fitta e dei paesi presepe dell’osso del Sud non rimasero che macerie. Ha colpito alle spalle, è esploso nel ventre molle di una zolla su cui erano adagiate vecchie case e antichi paesi, sbriciolati in pochi secondi da un’onda assassina. Una tragedia annunciata, si disse subito. L’avevano prevista con l’approssimazione che la natura può offrire alla scienza: “la terra non dice ma accenna”, disse all’epoca Franco Barberi, allora responsabile di un progetto del Cnr che non aveva stabilito certo il giorno, il mese e l’anno di un terremoto che i geologi si aspettavano, ma aveva calcolato intanto il “tempo di ritorno” dell’onda assassina, cioè l’intervallo medio tra un’esplosione sismica e quella successiva. Gli scienziati avevano previsto il terremoto dell’80. Negli studi del Cnr veniva indicata una data, il 1977 come quella di una probabile nuova scossa in Irpinia. La stessa area aveva subito infatti un terremoto di intensità superiore al nono grado della Scala Mercalli nel 1930. Tempo “di ritorno”, 47 anni. La nuova scossa era in gestazione, ed era stata superata di tre anni la data presunta della replica. Non solo parole, interviste, dibattiti e convegni, ma studi scientifici. Appena un anno prima, nel 1979 era stato pubblicato uno studio di 64 pagine, con sei cartine esplicative, dal titolo, per gli esperti, molto concreto: “Carta sismotettonica preliminare dell’Appennino meridionale”. A pagina 46, la previsione. L’Irpinia era in stato di “ritardo sismico”. Qui più che altrove, si attendeva “un sisma di grandi proporzioni”. “Una cosa si poteva fare”: osservare almeno le norme antisismiche per gli edifici di nuova costruzione e adeguare quelli antichi e insicuri.
Il sisma fu un evento naturale, ma la straordinarietà dei suoi effetti, la vastità della distruzione provocata ed il tributo altissimo di vite umane, difficilmente si spiegano solo con le leggi della natura. Nelle zone della catastrofe non crollarono solo le antiche case ma anche palazzine modernissime.
“Che fossero zone sismiche lo si sapeva da un pezzo, anche in seguito agli studi condotti dal Cnr: ma da noi la ricerca pura, tale rimane e non viene di regola mai applicata alla realtà del Paese”. Così Antonio Cederna, metteva sott’accusa una trentennale politica del territorio che alla tutela aveva preferito offrire mano libera alla speculazione, all’abusivismo, al saccheggio edilizio che, impoverendo l’ambiente, lo predisponeva alla catastrofe quando cataclismi naturali ne avessero scosso gli equilibri geofisici. “Succede con i terremoti – scriveva Cederna sul Corriere della Sera del 25 novembre ‘80 – quello che avviene con le alluvioni grazie al cronico rifiuto di ogni seria pianificazione del territorio e di programmazione di un intervento preventivo. Il disprezzo per il territorio, per il suolo, per l’ambiente naturale, ma anche per le norme poste alla sua tutela, sono un vizio che risale molto indietro nella nostra cultura oltre a configurare una precisa responsabilità politica”. La denuncia scaturiva dai fatti. “Da indagini recenti risulta che su 2000 comuni solo 159 hanno un piano regolatore e che oltre il 40% di quanto si costruisce è abusivo”. “Una situazione di sfacelo – concludeva Cederna – che ha reso e renderà sempre più catastrofiche le conseguenze dei terremoti”.
A prestare soccorso a quanti erano ancora vivi sotto le macerie, furono i sopravvissuti, scavando a mani nude, e i vigili del fuoco dei distaccamenti più vicini alle zone del sisma. Da Conza a Santomenna, da Balvano a Laviano e Lioni, le prime squadre di soccorritori dell’esercito cominciarono ad arrivare nel pomeriggio del 24 novembre, non sempre organizzate, né adeguatamente equipaggiate. Ritardi e mancanza di coordinamento: così si mosse la macchina dei soccorsi, condannando, probabilmente, a morte chi ancora da sotto quelle macerie poteva essere salvato.
Giuseppe Zamberletti, appena nominato commissario straordinario per l’emergenza sisma, ammise: “E’ stata sottovalutata all’inizio l’entità del disastro. Lo stesso Ministero dell’Interno non ha ricevuto subito dalla periferia il quadro esatto della gravità della situazione”. Severo il giudizio di Zamberletti anche sul ruolo dell’esercito: “I vertici militari si sono illusi di operare con le sole unità territoriali a disposizione nella zona, che sono una ben minima parte”. Ma più di ogni episodio, a sottolineare il fallimento dello Stato sul piano dei soccorsi, sono le parole durissime che il Capo dello Stato Sandro Pertini pronuncia il 26 novembre nel messaggio televisivo agli italiani: “A distanza di 48 ore non erano ancora giunti in quei paesi gli aiuti necessari. Ci sono state delle mancanze gravi, non vi è dubbio e chi ha mancato dev’essere colpito”. Pertini tocca un punto cruciale: la mancanza di un efficace servizio di Protezione Civile. La legge istitutiva fu approvata nel 1970 ma non furono mai attuati i regolamenti di esecuzione. L’esame di quel provvedimento iniziò il 27 novembre ‘80 in sede di Consiglio di Stato.
Quando le case crollavano, anche il futuro sembrava sgretolarsi nella mente dei cittadini. Fin dai primi momenti accanto a loro c’erano gli “angeli della speranza”, era l’esercito dei volontari partiti all’istante in sostegno dei terremotati da ogni parte d’Italia. Anche ad Auletta arrivarono i volontari che, con passione, spirito di adattamento e senso dello Stato, aiutarono le popolazioni colpite nei mesi dell’emergenza. Io c’ero, avevo cinque anni e mezzo e voglio portarvi alcune testimonianze.
In un’intervista del 2005, è Carmine Cocozza, quando era vicesindaco, a ricostruire quei momenti indimenticabili che hanno segnato la storia della comunità aulettese. “Stavo seguendo in tv la partita Juventus-Inter – racconta – quando al goal di Scirea tutto cominciò a ballare. Abbracciai mio padre, avevo letto da qualche parte che il luogo più sicuro è sotto gli archi delle porte e lì rimanemmo immobili, per qualche secondo o qualche minuto, chissà. Poi la fuga all’aperto: i vicoletti antichi si erano chiusi, i muri si toccavano, una scalinata di otto gradini era diventata uno scivolo, coperta da calcinacci, pietre, udivo il grido d’invocazione di tanti rivolto a Sant’Emiddio, protettore delle case”. Una fatale coincidenza uccise quella sera la ventottenne Lucia Caggiano e il figlioletto Emidio De Paola, di soli 6 anni. Si erano recati a Salvitelle in visita ai genitori. Un muro di contenimento, durante la forte scossa di terremoto non aveva retto, segnando la fine delle loro giovani esistenze. Entrambi, non hanno fatto più ritorno ad Auletta.
In paese si registrarono tre feriti, che vennero trasportati ai vicini ospedali di Polla e Sant’Arsenio. Nei giorni successivi, tra le immagini frequenti vi era quella delle file interminabili di cittadini che andavano presso le cucine da campo per prendere un pasto. Chi c’era ricorda soprattutto la gioia dei bimbi all’arrivo dei primi giocattoli, il sollievo degli adulti appena giunsero le prime roulotte, l’attesa per la consegna dei prefabbricati.
L’Amministrazione comunale, circa dieci anni fa, ha rintracciato tutti coloro che si sono gemellati con Auletta oppure hanno fatto una donazione al Comune, quanti hanno donato roulotte, scuole, somme in denaro. Sono stati raggiunti con un invito, dirigenti scolastici, i tanti militari che giunsero in aiuto, Tenenti, Colonnelli, dirigenti del Ministero dei Lavori Pubblici, professori universitari, volontari, delegazioni dei sindaci piemontesi.
All’epoca del sisma era Sindaco di Auletta Nicola Berghella e parroco padre Giuseppe Pesante. Il primo cittadino si trovò, come tanti altri, ad amministrare una situazione mutata all’improvviso. Quella sua piccola comunità agricola era scossa da un evento drammatico. Quei volontari di ieri – donne e uomini, lavoratori, professionisti, militari, religiosi, amministratori locali, che oggi hanno funzioni e responsabilità diverse – sono stati protagonisti negli ultimi dieci anni di un viaggio della memoria, anche per misurare insieme i risultati conseguiti sul piano urbanistico, sociale, produttivo e culturale dalla comunità che 35 anni fa hanno aiutato. Una comunità che è sempre grata agli “angeli della speranza”, che lasciarono le proprie famiglie per venire in soccorso di quelle di Auletta e di tutti i paesi colpiti dal tragico sisma di quella terribile domenica del 23 novembre del 1980.