di Giuseppe Liuccio
Paestum è una di queste. Lo è, di sicuro, per lo stupore dei templi dorici,che, a distanza di millenni, accendono ancora bagliori all’ocra delle colonne scanalate, per l’aria di sacralità che si respira nel Museo che espone lastre sepolcrali dipinte, vasellame policromo, metope a memoria di eroi e dei, per la “curiositas” di ricerca che stuzzicano foro,teatro, termae e tabernae a fuga/arredo di cardo e decumano, per le mura ciclopiche a cintura della città dissepolta, per le porte che si aprono a trasmigrazione di pianura e colline a figurare ricche attività e vocianti commerci a conquista di mercati interni, naturale prosecuzione delle rotte del Mediterraneo. Ma lo è,soprattutto, per quel pantheon di eroi e dei, che i Padri Greci si portarono dietro, con profonda “pietas”, dalla patria di origine quasi a vademecum/protezione nella nuova città. Alla foce del Sele approdò Giasone con il prezioso carico del vello d’oro, perseguitato dal rimorso/incubo di Medea accattivante nell’arte della seduzione e travolgente nella generosa passionalità dell’amore quanto perfida e lucidamente spietata nella trama macabra della vendetta: E vi fondò un tempio, quasi a scongiurare i pericoli. A Capodifiume le colonne mozzate di un altro tempio, che emerge dal minuscolo lago a raccogliere acqua di sorgente sulfurea, parlano di Persefone, dea di notte e giorno, di luce ed ombre, di inverno e primavera nell’alternarsi del ciclo delle stagioni, che, come quelli dell’amore, conoscono morti e resurrezioni, irruenti passioni e lunghi letarghi, profumate carezze primaverili e malinconici assopimenti autunnali. E sulla spianata della collina sovrastante una Madonna, nel carcere di una nicchia, esalta e purifica, nella ritualità cristiana, la paganità del rito con il “granato”, che da sempre è simbolo di amore con il rosso squillante dei fiori a giugno e con il sorriso contagioso dei chicchi ad esplosione di frutti in autunno, quasi ad indicare un percorso delle fasi di evoluzione dell’amore (della terra e dell’uomo):dolce trasalimento nell’innamoramento, furente passione, esplosione di nuova vita nella generosa fecondità. E Paestum diventa, così, la sede eletta e deputata al culto di Cerere e Cibele, di Iside e Demetra, di Persefone e,soprattutto, di Era Argiva, nomi diversi della stessa Magna Mater mediterranea, dea dell’amore e della fecondità.Questo patrimonio di culti con ritualità diverse dagli Antichi (Fenici,Egizi. Etruschi, Greci, Romani, Cristiani) fino ai nostri giorni consente di organizzare e pettacolarizzare eventi che scavino nell’anima dei luoghi.,anche perché la città si identifica da sempre nella ritualità/culto per Hera, pronuba di rigenerazione di vita nella e con la fecondità per gli uomini e per la terra. E, pertanto, nel nome di Hera Paestum può e deve cercare, (secondo il mio modesto parere) ispirazione per la promozione delle proprie attività, nel segno del turismo culturale in profonda sinergia con le specificità dell’agricoltura fecondata dalle acque sacre, nastri azzurri di vita ad irrigazione di pianura. Mi sembra superfluo sottolineare di tenere alto il livello del dibattito e dell’insegnamento, legando sempre l’uno e l’altro alla storia del territorio su cui aleggia l’aura della sacralità del mito. Noi, Pestani e Velini e, quindi, cilentani da sempre andiamo a tavola in compagnia di Cerere, Demetra, dee dei cereali, Era, dea della fecondità e dell’abbondanza, di Persefone/Proserpina,dea della dell’alternarsi delle stagioni, di Bacco/Dioniso, dio del vino. di Minerva/Atena, dea dell’olio e da secoli le generazioni nate e vissute nel nostro territorio si sono educate al canto della poesia di Omero e dei tragici greci., della grande poesia latina di Orazio e Virgilio, alla prosa poetica delle “Opere e i giorni” di Esiodo..Insomma abbiamo respirato aria di mito che è connaturato alla ragione stessa della nostra esistenza. Forse è il caso che, parlando del nostro passato, cominciamo ad usare termini che si addicono di più alla nostra storia e sono nel nostro DNA. come “CUCINA DEGLI DEI”, mutuando il termine dal titolo di un bel libro di Anna Ferrari o “A TAVOLA CON GLI DEI” una avvincente e coinvolgente storia della Cucina delle Eolie di Stefania Barzini. Se Il nostro linguaggio sarà di tono alto e impegnativo forse scoraggerà i cialtroni improvvisatori, che nascono e proliferano come funghi nelle giornate di sole dopo le piogge autunnali, con le loro fumisterie quotidiane. Brutta genia, dura a morire, i replicanti! Torniamo alle origini della nostra storia, quando anche i gesti della quotidianità avevano la ritualità e la gestualità del sacro. Torniamo a “MANGIARE CON GLI DEI E COME GLI DEI”, sacralizzandone i gesti,e la simbologia, anche e soprattutto nel linguaggio. Ne parlavo in una bella serata di fine luglio in una piazza gremita di popolo a Felitto, in occasione della Sagra del fusillo, che è uno dei tanti simboli della nostro cibo degli dei, anzi delle nostre donne cilentane, matrone, regine e dee della nostra cucina, che ha radici antiche di secoli. Ci ritornerò, come ho concordato con il prof. Donato Di Stasi, per una mission educativa con i ragazzi che ho trovato pronti e vivaci di intelligenza e gelosi delle loro tradizioni. Così come andrò a Gioi, altro tempio della pasta fasta in casa, e a Controne, patria della coltivazione biologica di un particolare culltivar di fagioli, e a Cicerale per i ceci e a Roccadaspide per i marroni, come a Stio e nei comuni pedemontani del Lambro e Mingardo, e così via. Sarà un viaggio d’amore e di cultura alla scoperta ed alla esaltazione dei contadini cilentani, che nella semplicità del linguaggio faranno giustizia dei trattati “presunti” dei “supponenti” esperti che dilagano in modo pernicioso. E nessuno dice quello che hanno sottolineato con profondità di ricerca gli studenti del Suor Orsola Benincasa di Napoli:La Dieta Mediterranea è essenzialmente rispetto sacrale di un vademecum fatto di principi secolari, che si possono sintetizzare in poche parole ben note e praticate da secoli nelle famiglie cilentane: CONVIVIALITA’, che insegna a sedersi a tavola per mangiare insieme; TRADIZIONE, che indica il patrimonio collettivo stratificato da secoli; STAGIONALITA’ che è un principio etico, politico e gastronomico che ci insegna a mangiare privilegiando i prodotti di stagione; l’attività L’ATTIVITA’ FISICA, ma senza trasformare il movimento in un esercizio ginnico permanente: INSIEME un valore di collaborazione collettiva nella produzione e scelta dei prodotti come nella elaborazione di renderli gradevoli nella e con l’arte della cucina; PEDAGOGIA ALIMENTARE capace di insegnare valore e significati che l’alimentazione ha avuto nella storia dell’umanità;.ABOLIZIONE DEGLI SPRECHI. In un mondo dove milioni e milioni di persone soffrono la fame è un dovere morale non buttare nella pattumiera il surplus alimentare. I nostri padri ci hanno insegnato la bontà del cibo riscaldato, che spesso è più buono di quello preparato al momento..Tramandiamo ai posteri l’insegnamento ereditato dal Mediterraneo un modo solidale sostenibile, sano, democratico di nutrire il piacere. Anche questo, anzi soprattutto questo, è sostanza e forma della Dieta Mediterrranea. Ma tutto può essere sintetizzato in una parola chiave, RURALITA’, che è l’alfa e l’omega del culto dovuto alla nostra Alma Mater terra, i cui sacerdoti sono stati, sono e restano i nostri padri. Sia la BANDIERA di quanti si occupano del settore:politici, operatori, giornalisti, scrittori, cineasti ecc. So, per informazione ed invito formulatomi dal direttore di questo giornale, che a Vallo della Lucania( non ho nulla contro La cittadina dei miei studi giovanili, ma per i motivi detti sopra avrei preferito Paestum o Velia) ci sarà anche una edizione di CINECIBO. Mi sta bene la spettacolarizzazione del problema, sempre che ne aiuti una diffusione corretta e non privilegi la forma, a scapito della sostanza, della rappresentazione. Ma il tema è troppo serio per liquidarlo con una battuta fugace. Pertanto mi riprometto di trattarlo a breve, sempre su questo giornale, con serietà di apprendimento nei limiti delle mie capacità
VINO E AMORE
Sui petti di colline a primo sole
nel concerto di grilli e di cicale
gonfia umori il vigneto generoso.
Lo piantò il nonno a solchi di fatica
su terra rossa, arida d’argilla.
Rise d’orgoglio al tenero virgulto
che latte gocciolò alla violenza.
Spiò la pigna rossa ad ombra amica
di pampini ramati già a settembre.
Rubò maggese umido di zolle
alla macchia di eriche e ginestre
mio padre, dio Pan ridanciano
a giostra vorticosa di mestieri.
A San Martino nell’autunno mite
spillò barbera dalla botte piena
a gorgoglio di schiuma nel bicchiere.
Memoria di filari saccheggiati.
nella vigna l’intesa di sorriso
della ragazza vergine d’umori.
Lo scalpiccio a schizzo di vinaccia,
polpacci duri anticipo di sesso
del giovane a dominio di tinozza.
Donna matura, avida, vogliosa
occhio languido,asma di respiro
simula danza a frenesia di corpo
a mostra di prodigio il seno inquieto
Venere ancora in carne all’avventura
di Dioniso/Pan nella sera
nel turbine di festa contadina
Nella città allo scialo di delizie
al ristorante must l’ultimo erede
consuma, raffinato, vino e amore:
ricerca colta di memorie antiche