di Anna Maria Pipolo
Il lavoro era la prima cosa che mi preoccupava quand’ero appena diplomata. Non solo per il desiderio di realizzarmi ma anche perché la mente aveva assorbito già da ragazzina il valore e l’importanza dei soldi, oltre al codice tutto cilentano dei silenzi, più importanti delle parole.
Silenzi di fronte alla faccia severa e dolce di una nonna che leggeva il Vangelo dietro al portone d’ingresso, seduta in una sfera di sole, e con quello e col rosario tra le mani pregava per tre figli emigrati, due in America e mio padre in Germania. Silenzi di fronte alla faccia di mia madre sempre atteggiata a preoccupazioni. Non potevo certo capire che era la paura di non saper crescere ed educare due figlie da sola, condurre la casa. Vedevo solo, ad ogni possibile richiesta, l’espressione di divieto già preparata.
Tutta la casa sembrava imprigionata in quella parola Germania, Amburgo, sacrifici.
Ma non erano i divieti o le piccole rinunce a intristire la casa, la mia come credo tante altre nella stessa situazione. Era qualcosa di più profondo riassunto in una cartolina sul camino, col Vesuvio sullo sfondo e un riquadro a forma di cuore da cui guardava la faccia di un padre giovane, in giacca e cravatta sottile, fotografato prima di salire sul treno per il Brennero. Saluti da Napoli.
Poi venivano i giorni del rientro, sotto Natale di ogni anno, con grosse valigie che si aprivano per cacciare cioccolate, sigarette per gli amici, guanti e pantaloni come regali, a volte una collanina. Non ricordo come lo accoglievo, ricordo solo che mi chiedeva della scuola e voleva guardare i quaderni e che la mattina ci preparava lui il pane marmellata con fettine rotonde di burro, alla tedesca.
La ripartenza era sempre col buio delle cinque del mattino. Lo sapevo che stava salendo nella stanza per venire a salutarmi dire all’orecchio fai la brava, ma mi sentivo autorizzata a fingere di dormire e solo dopo che si era richiuso il portone mi alzavo per guardare dal finestrino il pullman della Sita che partiva, quando il portellone si era richiuso.
L’orgoglio che provavo quando lui era con noi, per ogni cosa che raccontava, appena era ripartito si trasformava anche quello in silenzi da custodire, perché quella parola “emigrante” proprio non mi usciva nei temi che assegnava la maestra, mi sembrava una squalificazione sociale. In compenso sapevo descrivere bene il fiume Elba che d’inverno si ghiacciava così tanto che i furgoni ci passavano sopra, con gli operai e gli attrezzi, e le luci di un porto raccontato. Sapevo i numeri in tedesco e perfino alcune frasi di cortesia. Le maleparole e le bestemmie quelle certo non me le insegnava.
Il lavoro che mi preoccupava da giovane mi venne incontro subito e con quello l’indipendenza che era il bene assoluto. Eppure, al netto delle scoperte, dello stipendio e delle piccole soddisfazioni, una sensazione di privazione mi accompagnava anche da adulta, in ogni posto, in ogni impresa, anch’io sempre con una valigia di andata e ritorno. Di propositi all’andata, di regali e di oggetti scelti nelle vetrine al ritorno. Una sensazione di provvisorietà onnipresente, di sicurezza consolante solo quando mi ritrovavo su un mezzo di trasporto, a metà tra il punto A e il punto B, tra il prima e il dopo di qualcosa.
Certo è banale e patetico parlare di questi piccoli guasti di un tempo in cui i bisogni di lavoro erano ben tutelati da un’Europa appena nata, momenti che appaiono perfino felici. Ora è tempo di sold out per un’Europa invecchiata, biglietti finiti, e di domande crudeli da rivolgere ai respingimenti sui barconi. Perché non sei rimasto dove sei nato? Perché osi sognare di mangiare e curarti in una patria che non è tua? Perché quel corpicino riverso sulla spiaggia aveva belle scarpette ai piedi?
Vado a riguardare la cartolina Saluti da Napoli e rivedo la giacca e la cravatta sottile.