di Anna Maria Pipolo
È tempo di Olimpiadi e sfido chiunque a non farsi prendere dal fascino dei sorrisi e dei baci alle medaglie, dell’euforia e dei pugni alzati al cielo, soprattutto se gli atleti sono vestiti di azzurro e inondati dalle note dall’inno di Mameli.
Non vorrei denunciare i numeri della mia età, parlando della prima volta in cui mi scoprii infatuata delle gare, degli atleti, delle voci concitate dei cronisti, ascoltando le imprese da una radiolina scassata attaccata all’orecchio, che rimandava scariche proprio ai momenti clou.
Non mi sono persa mai, da allora, gli appuntamenti, preferendo questa o quella disciplina, tifando per i candidati nazionali, ma avvertivo ogni volta, al di là della singola gara, il vero fascino dei giochi e dello Sport: osservare il livello massimo di impegno per ottenere una medaglia è cosa che muove corde dentro ognuno di noi. Ciascuno ha una sua motivazione, una radice che emerge con una commozione improvvisa, magari per tutt’altri motivi, o un risentimento sottopelle o un’insoddisfazione accettata. Chi di noi non si sente un minuscolo atleta, intento a un’impresa, a un’ambizione, e misura nei decenni la posizione, il gradino, la prossima tappa o la vetta: è passata, è da venire…
A volte penso alla terra di cui si occupavano i miei genitori da giovani, e con quel poco sognavano di migliorare, creare una famiglia stimata e non far mancare nulla ai figli. Non era un traguardo da poco e ci sono riusciti nella loro Olimpiade, come la maggior parte dei genitori cilentani, che hanno sempre mirato in alto: il sapere, la cultura più di ogni cosa, quel che a loro era mancato per la guerra.
Mia madre era già in età – anzi, mi correggo, aveva la mia età di oggi – quando, in occasione delle Olimpiadi di Sidney 2000, era seduta sulla poltrona in cucina, in attesa che io preparassi qualcosa – mi chiedeva sempre, quando venivo da Salerno: «Cucina qualcosa di buono, oggi!». Io l’avevo sistemata apposta davanti alla TV accesa ad alto volume, per darle in aperitivo l’emozione della gara di canottaggio K2, 1000 metri, che andava in onda. Il mitico Antonio Rossi vinceva l’oro, sotto la voce rauca e concitata di Giampiero Galeazzi che sembrava spingere l’imbarcazione: «Vai Antonio, Vai Beniamino! Vince L’Italia!». La faccia di Antonio Rossi inquadrata, il braccio levato in segno di vittoria, commossero anche mia madre, insieme a me: avevamo entrambe le lacrime agli occhi. Lacrime ingiustificate, riassunte da quel gesto che pareva spettasse anche a noi, così lontane. «Che bel giovane!» ripeteva lei più volte. E non solo allora, anche negli anni successivi: «Ma non lo fanno vedere più quel giovane, che non mi ricordo il nome, che bravo, che bello!». Un vero innamoramento.
Nelle altre occasioni, in gare attese, stava attentissima e chiedeva a me quali erano gli italiani e quali gli stranieri e di che paesi fossero, quei campioni che vincevano nei tuffi, nel nuoto, alle sbarre o agli anelli. Lo stesso sgranava gli occhi, ma l’entusiasmo non era quello del primo amore. Anche perché passavano gli anni e c’erano altre cose. Al più, quando vedeva i volteggi in aria delle farfalle azzurre o le gambe delle sincronette svettanti fuori dall’acqua, la sentivo commentare: «Eh, accussì vuless esse’ pure io, jat’ a loro!» oppure «Beate le mamme che tengono ‘sti figli», con un mio piccolo e antico disappunto. Mio padre, attento anche lui alle immagini, distoglieva lo sguardo dallo schermo e la guardava con aria superiore di capofamiglia, costretto a girarsi verso di me in segno di affettuosa squalifica per la moglie.
La poltrona è la stessa, con me seduta al loro posto in una cornice di riti e giornate quiete, di fronte alla TV e agli inni nazionali di questa estate 2024 che fonde persino le pietre del fiume, per il caldo. Il potere delle Olimpiadi è sempre lo stesso e l’inno nazionale mi fa effetto ancora, pur non avendo all’attivo gare, né vive né sbiadite, ma un po’ mi sembra anche il mio.