A Francesco Mario Pagano (Brienza, 8 dicembre 1748 – Napoli, 29 ottobre1799) che “del diritto ne fece libertà e morte”… il mio saluto!
Come al tuo cuore piacque: Nato in Brienza (PZ) nel Cinquantunesimo anno prima della Repubblica Napoletana del 1799, nel giorno del “cipresso”, il ‘”septidì ” della “seconda decade” di “frimaio”
Morto in Napoli, nella Primo della Repubblica Napoletana del 1799, nel giorno del “fico”, il “septidì” della “prima decade” di “brumaio”
epigrafe
Dichiarazione dei dritti, e doveri dell’Uomo, del Cittadino, del Popolo, e de’ suoi Rappresentanti
L’immobile base di ogni libera Costituzione è la dichiarazione de’ dritti, e doveri dell’Uomo, del Cittadino, e quindi del Popolo. Perciocché, il principale oggetto d’ogni regolare Costituzione dev’essere di garantire sì fatti dritti, e di prescrivere tali sacri doveri. Perciò la Provvisoria Rappresentanza della Repubblica Napoletana alla presenza dell’Essere Supremo, e sotto la sua garanzia proclama i dritti, e i doveri dell’Uomo, del Cittadino, del Popolo, e fa le seguenti dichiarazioni.
1-Tutti gli uomini sono eguali, e in conseguenza tutti gli uomini hanno dritti eguali. Quindi la Legge nelle pene, e nei premj senza altra distinzione, che delle qualità morali, gli deve egualmente considerare.
(Francesco Maria Pagano, ex “Progetto di Costituzione”)
Ed anche per te, maestro Francesco Mario Pagano, figlio della città di Brienza, che “del diritto ne facesti libertà” … canterò il mio canto!
E se, come già d’altri, non fu di quella città, che mi vide malfermo alunno crescere negli studi, il Liceo e nemmeno quel suo antico figlio che l’”augusto encomio” levò al padre del mio Federico, pure per quel tal suo figlio, che il grande Vico lodò, verrò e condividendo con te, maestro, il vanto di quella città che tra i suoi più grandi allievi ti ebbe, ti seguirò in quel tuo cammino di conoscenza e di libertà che fu il tuo destino.
Erano gli anni della formazione quando, ancora giovane all’età di quattordici anni trasferendoti dal tuo paese a Napoli incontrasti quel tal Gherardo frate di Eboli che con le sue lezioni ti consegnò per sempre alla poesia, (forse che non fosti, maestro, anche autore di teatro?) ma segnatamente a quella “Scienza Nuova” che tu avanzando approvasti non solo “seminando” le tue opere ma anche il tuo vanto.
E se frate Gherardo fu il primo, non mancarono poi altri ed ancora più famosi e, in quella università, che fu già di Federico, allievo del grande maestro delle “Lezioni di Commercio” che, come scrive luigi Firpo nel suo saggio, stava “spostando l’attenzione dai temi teologici e metafisici…verso la natura reale, le relazioni e le passione umane concrete, in sostanza averso la filosofia civile” riconoscendo come il maestro insegnava che “ ogni studio che non ha fondamento nella natura e non mira alla soda utilità degli uomini è un’occupazione vana e nocevole” fin subito, non avevi ancora vent’anni, ti votasti all’impegno civile ed ai bisogni e delle necessità reali degli uomini e della società. E mentre con lo studio cresceva la tua sapienza già con quel libretto, ”Disegno del sistema della scienza degli Uffizi”, che qualcuno tramanda avresti scritto in cinque giorni, per quel concorso alla Nunziatella che non mia vincesti, principiava il tuo impegno civile a produrre i suoi frutti e convinto che finalmente fosse arrivato anche a Napoli il tempo di quel “dispotismo illuminato” che, a beneficio del popolo, stava già in altri stati operando non solo continuasti a scrivere ma condividendo con il grande amico Gaetano Filangieri la promessa di una patria libera da ogni sopruso e da ogni privilegio, vi iscrivesti alla “massoneria” e di una di questa loggia “La Philantropia” ne divenisti anche il “maestro venerabile” . Perché davvero in quegli anni e fino a quando, nelle prime avvisaglie del 1794, non scopristi la feroce barbarie borbonica, credevi che con i regnanti, anche con il nostro, si potesse e si dovesse collaborare: chè sempre ai “ filosofi spetta di proporre ed ai sovrani regnare”.
E così, giovane avvocato, presto ti ritrovasti nella vita di coloro che precipitati nelle maglie della giustizia si ritrovavano davanti un sistema giuridico iniquo ed antiquato. Fondato non sull’uguaglianza di tutti davanti alla leggi ma sul privilegio della casta. Esistevano allora nella società assolutamente divise tra di loro, incomunicabili, tre classi ossia la nobiltà, il clero e il terzo stato, detto alla francese e tre erano “stabiliti” i livelli di giustizia, con in più il fatto che alla carriera giudiziaria potevano accedere solo e solamente i nobili con le conseguenze che si possono facilmente immaginare. E tanto era in più era l’ingiustizia e la confusione tra i giudici inquirenti e giudicanti che presto facendo tue le “Considerazioni sul processo criminale” del grande Filangieri, non solo ti ribellasti, tema assai caro a tutto l’illuminismo, al turpe uso della tortura, affermando che “ la confessione estorta tra i tormenti è l’espressione del dolore, non l’indizio della verità” ma con una lunga serie di tue “allegazioni” di lungimiranza avvisato, proponesti non solo un processo più giusto ma che fosse di contro al costume di allora basato non solo sulla presunzione d’innocenza, sulla libertà personale dell’imputato ma anche sulla parità del contraddittorio tra le due parti ma segnatamente basato su un istituto giudicante autenticamente “terzo” ed imparziale, anticipando di te quel grande “riformatore” che in quel mai approvato “Progetto di Costituzione” per la Rivoluzione Napoletana fu la tua gloria ma anche il tuo destino.
E così con la determinazione e la verità che segnò tutto il tuo cammino di filosofo e giurista già a partire dall’anno 1783, nell’attesa di una società più libera e giusta, senza i visti della “censura”, pubblicasti il primo dei due volumi che costituiranno l’opera tua più importante. Quei “Saggi politici” che lo storico ed economista Giuseppe Maria Galanti nella sua “Nuova descrizione della Due Sicilie”, distinguendo i libri in tre categorie: “i solidi” (quelli che noi oggi diremmo scientifici e di cui, ahimè, non si vendevano più di venti copie) “gli istruttivi e i piacevoli”, tra quelli detti “solidi” li annoverava, e che recando come sottotitolo “Del civile corso delle nazioni o sia De’ principii, progressi e decadenza delle società” lasciava già ben intuire quale di quel “corso delle nazioni” fosse il padre filosofico e tu il discepolo. Quel Giambattista Vico che convinto della circolarità della storia tu, maestro, apparecchiavi ai tuoi “Saggi”, vantando come tra la natura e la vita di ogni uomo ci fosse una “analogia” sottesa che non poteva, al fine della “felicità “di ogni nazione, non essere elusa e che “le leggi e il diritto, così come le altre forme dello spirito, perché possano assolvere a tale funzione, bisogna che siano rispettosi della libertà e della democrazia, e garantiscano la giustizia”. Non piacquero queste tue idee né questa tua “legge universale” sicchè quando uno dei tuoi due volumi capitò tra le mani del Cappellano Maggiore preposto alla sorveglianza dei libri pericolosi, tosto fosti “censurato” e accusato di “panteismo, fatalismo, materialismo, irreligiosità, immoralità e diffusione di idee contrarie al trono ed all’aristocrazia” inevitabilmente ti attirasti le ira prima della chiesa e poi del re o meglio della regina.
E se, con quella tua “Lettera Apologetica”, in cui controbattendo “solidamente” in ogni punto le accuse del Cappellano quella volta fosti dalle accuse prosciolto, non accadde di contro, quando nell’inverno dell’anno 1792 approdando a Napoli in visita una delegazione del governo rivoluzionario francese, tu, maestro, sinceramente ispirato al “miglioramento” dello stato, fosti tra i primi, che salendo a bordo di quella nave, tentasti di quella “occasione” farne una speranza per il nostro regno. Ma non fu così, chè anzi disseppellendo la paura borbonica vecchie norme a guardia della sicurezza dello stato, nell’agosto dell’anno 1794, la polizia segreta ordinando un arresto in massa idi tutti i componenti di una modesta associazione rivoluzionaria ed “ad modum belli” rinviandoli tutti a processo, tu, maestro, ti opponesti ed assumendone la difesa, a rischio della tua stessa vita, tentasti di salvarli, ma fu tutto vano chè tutti furono condannati e tre di loro di cui non voglio tacere il nome, gli avvocati Emanuele De Deo, Vincenzo Galiani e Vincenzo Vitaliani, furono afforcati: in tre non assommavano all’età di sessanta più sei anni. Intanto montava con la paura del re il sospetto e la delazione ed anche tu che nel “foro” di Napoli eri il faro più acceso e non eri forse, per la bellezza, la forza e la sapienza delle tue arringhe dai tuoi stessi colleghi titolato il “Platone di Napoli”, venisti denunciato e con l’accusa di essere un “seduttore e consigliere giacobino” e di “aver biasimato l’aristocratico e
Venti più nove, senza processo, prima sepolto in quella “fossa del coccodrillo” e poi nel ben triste carcere della Vicaria, furono i mesi prima niuna prova trovata venisti scarcerato. Ma temendo la ritorsione decidesti “clandestinamente” di varcare il confine e in quella che era allora la Repubblica Romana ti rifugiasti, dove accolto con rispetto dai quei “rivoluzionari”, con spartana virtù, accettasti di quel Convitto la cattedra facendoti ai figli di quella Repubblica di diritto maestro.
Ma venne breve alla fine quella Repubblica e ti toccò di nuovo, maestro, l’esilio, ma precipitando, per l’avanzata francese verso il nostro regno, gli eventi e proclamata da parte di uno sparuto quanto risoluto gruppo di nostri “patrioti” la Repubblica Napoletana, benchè assente, eri fuggito in Milano, tra i venti più cinque membri del “Governo Provvisorio” fosti nominato e quale presidente del “Comitato Legislativo” non solo tornasti ma subito ti mettesti al lavoro per dare alla patria liberata una nuova più libera e giusta “Costituzione”. E sebbene brevi, difficili talvolta caotici furono della Repubblica quei suoi cinque mesi più venti giorni pure, in quella tensione ideale, che mai più il nostro meridione avrebbe avvisato, provasti “a riparare i mali passati per quanto la loro vasta mole permetteva” e immergendoti in quel “Progetto di Costituzione della Repubblica Napoletana” presentato e mai approvato, dichiarando che “ha esso adottata la Costituzione della Madre Repubblica Francese. Egli è ben giusto, che da quella mano istessa, da cui ha ricevuta la Libertà, ricevesse eziandio la Legge, custode, e conservatrice di quella” pure … riflettendo… rivendicavi, a ragione della diversità di ogni nazione, leggi, lettore, l’eco di Montesquieu che c’era ragione di superarla “chè la diversità del carattere morale, le politiche circostanze, e ben anche la fìsica situazione delle nazioni richiedono necessariamente de’ cangiamenti nelle Costituzioni”. Ed anche se, tuo amico, quel tal autor di un “Saggio sulla Rivoluzione di Napoli del 1799” giudicò la tua Costituzione “molto francese e poco napoletana” non ti crucciare, maestro, che molti furono i “cangiamenti” e di contro quella francese mi piace, a tuo vanto, di ricordar solo quella norma dell’”Eforato”. Un organo di antica radice spartana che anticipando di un secolo e più l’attuale nostra Corte Costituzionale aveva il compito di controllare che l’esercizio dei poteri garantisse sempre nelle sue decisioni il rispetto dei principi fondamentali della stessa Costituzione. E se, come scrive il giurista Battaglini, non si possono escludere che “vi siano state discussioni, alle quali ognuno (cinque erano i membri) nell’ambito delle proprie conoscenze, abbia potuto partecipare” possiamo però con certezza affermare, maestro, che “la Costituzione napoletana è opera personale, anche se non esclusiva, del Pagano … ha carattere unitario, organico e rivela la personalità e la mentalità del Pagano che tradusse in un documento legislativo il frutto dei suoi studi e delle sue esperienze”.
E fu tanta, in verità, di quella Costituzione la lungimiranza e la tua ostinazione che mettendo al centro per una democrazia compiuta l’importanza dell“educazione pubblica”, molto ti battesti diventando poi “Titolo” nel tuo progetto “lo stabilimento di una educazione nazionale” che avesse per iscopo che quella “plebe” di cui la tua amica Eleonora diceva le monarchie fondono il loro potere, si riducesse “a pensar come popolo”. Non ci fu tempo e quella che fu la grande speranza, il sogno giacobino, di condurre la plebe a diventare popolo sovrano presto naufragò. E con l’avanzata delle bande sanfediste e con l’appoggio in città delle truppe inglesi, russe e turche, già il 17 di pratile (5 giugno) il Governo Provvisorio, dichiarando la “patria repubblicana” in pericolo invitava, con un proclama, tutti i cittadini a prendere le armi. E tu, maestro, non mancando tra i primi rispondesti e prese le armi con altri valorosi di San Martino la Certosa tentasti la difesa ma troppe erano sovrabbondanti e feroci le forze reazionarie e tutto fu inutile. Celebre ed ad imperitura memoria il vanto del sacrificio del fortino della Vigliena che i “patrioti”, a costo della loro stessa vita, fecero saltare in aria, chè abbandonati dall’esercito “fratello” (sic!) dei francesi, in balia la Repubblica con la città della violenza e della barbarie dei “lazzari“, tornati all’obbedienza del “re pate”, avevano scatenato la caccia al “giacobino”, nulla resistenza rimaneva, sicchè, forse per una volta si sentì cristiano, offerta dal Cardinal Ruffo la resa tu con tutti i tuoi compagni sottoscriveste la “capitolazione” con l’onore delle armi e dell’esilio perenne.
Questi i patti dalle due parti sottoscritti ma l’odio e segnatamente la paura (in Francia aveva visto ghigliottinare la sorella) che accecava la regina fece sì che non valse di un re né la dignità né la parola data e così stracciato il patto, mentre eravate in attesa su quelle navi di partire esuli per la Francia, il “macellaio di Napoli” vi fece tutti arrestare e precipitato di nuovo in quella “fossa” e poi nella Vicaria, il giorno di sabato del 24 di agosto riceveste la visita del beffardo tal giudice Speciale che avvisandoti che “la tua testa è votata alla morte, la Corte ti detesta e il popolo lo vuole” il 6 di ottobre venisti condannato alla forca e ricusata la grazia già il giorno di martedì del 29 ottobre venisti prelevato dal carcere ed insieme ai tuoi tre compagni: Domenico Cirillo e Ignazio Ciaia ed a Vincenzo Pigliacelli, foste tradotti al patibolo. Si narra, maestro, che mentre su quella piazza del Mercato, già insanguinata da tante esecuzioni, attendevi di salire le scale del patibolo, avresti, questa lettera mai scritta ma da tutti considerata il tuo testamento spirituale, dettata: “Amici e patrioti addio. Di me non piangete ch’io vo’ all’incontro della vita e della libertà, e il patibolo mi è più corta scala a salir fra gli immortali. La morte inevitabile a tutti, a noi è gloriosa, e mentre ella separa gli altri amici per lunghi anni, separa noi soltanto per pochi dì e tutti ci vuol riunire e per sempre… Io non desidero vendicatori uscenti dalle nostra ossa perché non dubito in guisa alcuna del frutto copioso del sangue che noi versiamo. Forse più generazioni ancora si succederanno di vittime e di carnefici, ma l’Italia è sacra e sarà eterna” e consegnando il collo al boia pur nell’atroce tortura del cappio, non fu forse il tuo già di Altri un destino, “serenamente” in silenzio abbandonasti questa vita.
Avevi solo 51 anni e quel capestro non troncò solo il tuo sogno ma il nostro, maestro, e di tutto il nostro sfortunato Meridione!
Questo, maestro, come d’uso, il mio epigramma per te: “ Dei venticinque fosti il presidente chè il diritto dicevi e la tortura è solo un delitto.
Chiusa, nelle ore antimeridiane di lunedì 1 maggio dell’anno del Signore 2023 o come al tuo cuore sarebbe piaciuto nel giorno del “trifoglio” il’“duodì” della “seconda decade” di “floreale” dell’anno CCXXIV della Repubblica Napoletana.
P.S.
nota storica sul calendario della rivoluzione francese del 1789
Il “Calendario Rivoluzionario” proposto dal fisico e matematico Gilbert Romme, diviso in dodici mesi di tre decadi ciascuno, ogni decade chiusa da un decadì, fu approvato dall’Assemblea Nazionale di Francia stabilendo che la nuova era avesse inizio il 22 settembre 1792, anniversario della proclamazione della Prima Repubblica Francese. Il calendario restò in vigore sino quando al giorno del “battitore” il 10 di Nevoso dell’anno XIV della Repubblica Francese (ossia al 31 dicembre del 1805) non seguì più il giorno del “granito” ovvero l’11 dello stesso mese ma di contro tornò il 1° gennaio dell’anno 1806: Napoleone era imperatore ed in agguato c’era la Restaurazione. Fu riadottato ma senza più esito per soli 18 giorni dal Comune di Parigi del 1871.