Il Porto d’Arte Contemporanea ad Acciaroli è il primo di questo genere in Europa. È un progetto innovativo che nasce nel 2015 da un’idea di Valerio Falcone e si basa sul rapporto fra l’identità storica del luogo, Acciaroli – Pollica, e, più in generale, l’area del Mediterraneo, e la relazione che essa ha con le altre culture e le filosofie artistiche contemporanee, riscoprendo la centralità della cultura mediterranea all’interno del mondo occidentale. Questa forma abbastanza anomala di Museo di Arte Contemporanea, un Museo “diffuso” a cielo aperto, ha come finalità quella di promuovere le forze creative dell’area campana e di quella mediterranea che la accoglie. Proprio per la particolarità di questo progetto, infatti, il Porto d’Arte Contemporanea ambisce ad essere il punto di riferimento artistico-culturale dell’Area del Mediterraneo facendo da rete di collegamento creativa in questa zona geografica.
Intorno al Porto d’Arte Contemporanea si sono alternati e ruoteranno molti dei più grandi artisti, critici, galleristi ed intellettuali di fama mondiale che conferiranno a questo progetto uno status ed una dimensione di elevato spessore internazionale.
Dal 2015 ad oggi hanno preso parte al progetto gli artisti Lello Lopez, Riccardo Dalisi, Angelomichele Risi, Sergio Fermariello, Vincenzo Rusciano, Bianco-Valente, Eugenio Giliberti, Miltos Manetas, Matteo Fraterno, Franco Silvestro, Sasà Giusto, Federica Limongelli, Gino Quinto, Gabriele Di Matteo, Ilaria Abbiento.
Ilaria Abbiento è un’artista visiva partenopea. La sua ricerca, incentrata sul tema del mare, parte da una profonda immersione introspettiva per costruire una narrazione poetica che indaga il suo oceano interiore.
L’artista, che si esprime essenzialmente attraverso la fotografia, elabora le sue opere adoperando elementi materici in relazione alle immagini, costellate talvolta da testi poetici e letterari, studia installazioni site-specific e lavora anche con il video. La sua pratica artistica esplora il paesaggio, rivela geografie di pensiero, cartografie immaginarie da cui emergono le isole del suo arcipelago interno. Il suo studio è un osservatorio sul mare, elemento fluido e allegorico dell’esistenza, di cui ne osserva movimento, mutamento, tempera e temperatura. Nel mare si perde continuamente per ritrovarsi. Le sue opere sono state esposte in molte Gallerie d’Arte e Musei sia in Italia che all’estero, in fiere d’arte come Artissima e ArtVerona e alcune fanno parte di Collezioni d’Arte Contemporanea. Attualmente l’artista è rappresentata da Claudio Composti Direttore Artistico di mc2gallery di Milano e Beatrice Burati Anderson Art Gallery di Venezia.
“Acquario” – testo di Valentina Rippa per Ilaria Abbiento:
È tutto nell’empatia che riempie il cosmo, riesce a carpirla solo chi è attento all’alchimia dei raggi luminosi, delle costellazioni e dei marosi. In fotografia entrano in gioco processi che coinvolgono l’argento e la luce, nella sfera spirituale accade qualcosa di simile. Di Ilaria Abbiento, artista, amica e contemplatrice solitaria mi ha sempre colpito il totale abbandono e l’amore nei confronti di un unico elemento: il suo mare. Mare che è specchio e cura, luogo prescelto per cogliere e raccontare il manifestarsi della spiritualità. Riporta al pensiero orientale il dialogo costante e silenzioso tra Ilaria-Artista e le altre entità viventi che si spartiscono il mondo: cielo terra – montagne acque. La sua ricerca è un invito alla fusione dei contrari, all’ apertura e al cambiamento. Il suo segreto sta nell’osservare da molto vicino per entrare in simbiosi con la sostanza delle cose al punto in cui si confondono il dentro e il fuori. Per un’artista come Ilaria non conta sempre l’inusuale; il mistero è da ricercare, in quell’ unico elemento, immergendosi totalmente, lasciandosi coinvolgere, leggendone i cambiamenti minimi e impercettibili per farli propri. In questa connessione tra stati d’animo, cielo stellato e immensità del mare, in questa capacità di intravedere un’infinitezza universale, risiede la profondità di Ilaria Abbiento e di tutta la sua ricerca non solo fotografica. La mostra, concepita per lo spazio intimo del Pac (Primo Porto d’arte contemporanea), è un invito ad immergersi nell’acquario emozionale di un’artista che apre a visioni straordinarie, al lirismo, alla poesia, alla contemplazione. Immagini ed elementi senza tempo, dove la presenza umana, si lascia intuire solo attraverso una piccola installazione di reperti simbolici, alcuni appartenuti all’artista, altri no, questo non conta. Quello che conta è lasciarsi andare al fluire delle cose, alla stregua del mare che insieme alle stelle marine, restituisce un senso totale di libertà e bellezza.
Gabriele Di Matteo
Gabriele Di Matteo è nato nel 1957 a Torre del Greco. Vive e lavora a Milano. Mostre personali gli sono state dedicate dal Frac Bretagne di Rennes (2003); Le Gran Cafè, Saint-Nazaire (2003), 404 Gallery (Napoli, 2003); Frac Limousin, Limoges (2002); Vilma Gold Gallery, Londra (2000); Frac Languedoc Roussillon (1994); Galleria Fac Simile, Milano (1991;1989). Ha partecipato a numerose mostre collettive, tra le quali Isola (art) project al MAMCO di Ginevra (2003); Napoli Anno 0, Castel Sant Elmo (Napoli, 2002); alla Biannale di Tirana (Tirana, 2001); Il Dono, Palazzo delle Papesse (Siena, 2001); Due o tre cose che so di loro, P.A.C. (Milano, 1998); Photopeintries, Casino Luxembourg (Luxembourg, 1996); Tradition & Innovation, National Museum of Contemporary Art (Seoul, 1996); Procréation, Centre d’Art Contemporain FRI-Art (Fribourg, 1994). Nel 2002 Gilda Williams lo ha inserito fra i 114 pittori contemporanei che compongono l’antologia Vitamin P. New Prespectives in Painting (Phaidon Press, Londra)
testo di Massimo Sgroi per Gabriele Di Matteo
Nel rappresentare la pittura commerciale come “altro da sé” e non come oggettualizzazione di un’opera, Gabriele Di Matteo compie una operazione che richiama alla memoria Roland Barthes; il suo film che racconta la creazione di quadri funzionali alla festa della Madonna dell’Arco del lunedì Albis, solo apparentemente ricade in una struttura del racconto. In realtà l’artista napoletano non ha bisogno di rappresentare la storia in quanto tale, piuttosto il suo intreccio narrativo sottintende quella che, appunto Barthes, definisce “nozione di differenza”. E, quindi, il sentire la tensione religiosa (per giunta di origine pagana) e la compresenza della filosofia demoantropologica dell’evento si traducono, attraverso il film, in un sentire oggettivo: il “si sente” che non è affatto il soggettivo “io sento”. Raccontare la storia di una devozione che è basata, però, sul lavoro commerciale di pittori come Salvatore ‘a mimosa è come narrare una storia per immagini cinematografiche senza guardare nell’obiettivo della videocamera; è come eliminare la rappresentazione dell’evento antropologico identificandosi totalmente con ciò che accade. Gabriele Di Matteo non usa il pittore commerciale, il falsario di opere cinesi (un suo meraviglioso doppio falso) o il paesaggista dell’ottocento napoletano, lui è tutti questi, quasi come se fosse il gallerista di immagini non viste. In questo film egli distrugge i contorni dell’opera come della storia; al racconto di una cristiano/pagana devozione sovrappone l’idea che l’opera d’arte straripa dai suoi contorni poiché non può restare rinchiusa nella sua forma. In fondo è rimasto: Il ragazzo che tirò la pietra.