Marina Abramović è un’artista serba naturalizzata statunitense. Attiva fin dagli anni Sessanta del XX secolo, si è autodefinita la «nonna della performance art»: il suo lavoro esplora le relazioni tra l’artista e il pubblico, e il contrasto tra i limiti del corpo e le possibilità della mente.
Quando si pensa ad alcune delle performance più celebri dell’arte contemporanea, il nome di Marina Abramović echeggia chiaro e limpido. Marina ha avuto sempre chiaro il suo obiettivo: indagare il suo io più profondo, mettersi in gioco sfidando qualsiasi limite, senza aver mai paura di scandalizzare gli altri. Durante la sua straordinaria carriera è stata protagonista di recensioni entusiastiche come di giudizi lapidari, certo è che ha saputo perfettamente mantenersi in bilico tra questi due opposti, rimanendo sulla bocca di tutti. In questo articolo vogliamo raccontarti la sua vita e quali sono alcune delle performance più note.
La vita di Marina Abramović è iniziata a Belgrado, sua città di origine, ma si snoda anche tra altre due città cardine che sono Amsterdam prima e New York poi. Nata in una famiglia benestante, i suoi genitori erano entrambi partigiani durante la Seconda Guerra Mondiale, aderendo al Partito Comunista di Tito. Per questo i primi anni da bambina li trascorse con la nonna materna e fu influenzata in modo profondo dalla sua fede ortodossa.
Nonostante un’educazione molto rigida, fin da bambina è stata incentivata a sviluppare un legame con l’arte, tanto che a 12 anni le fu regalata una scatola di colori. Appassionata di disegno e pittura, Marina Abramović dal 1965 al 1970 ha studiato all’Accademia di Belle Arti di Belgrado e le sue opere sono diventate sempre più astratte. Il suo percorso di formazione è continuato poi a Zagabria dove ha iniziato a servirsi del corpo come strumento artistico, dedicandosi sia al suono sia all’arte performativa.
Il primo momento di svolta della sua carriera è arrivato nel 1973 durante il duplice incontro con Joseph Beuys, prima ad Edimburgo e poi al Centro culturale studentesco di Belgrado. Gli happening di Beuys sono stati per lei una fonte di ispirazione straordinaria che le hanno permesso di capire con estrema lucidità e consapevolezza quale fosse la sua strada: la performance.
Qualche anno dopo Marina vive un altro evento che ha cambiato per sempre la sua vita: ad Amsterdam, durante un incontro internazionale di artisti performativi, conosce l’artista tedesco Ulay, all’anagrafe Frank Uwe Laysiepen. L’anno successivo l’artista decide di abbandonare il marito, Belgrado e la rigidità a cui è sempre stata sottoposta per vivere con Ulay ad Amsterdam. Ed è così che è nata una relazione e soprattutto un sodalizio artistico che è durato per tantissimi anni. Insieme hanno realizzato la serie Relation Works e hanno ideato il manifesto Art Vital, che definisce la direzione della loro pratica artistica. Dopo alcuni anni, è avvenuto il trasferimento in Australia, presso la tribù Pintupi nel Gran Deserto Victoria, da cui è scaturita la performance Nightsea Crossing.
Il loro sodalizio artistico prosegue negli anni, fino al 1988, quando si conclude con la camminata lungo la Grande Muraglia cinese per l’opera The Lovers. Questa performance ha concluso la loro relazione e la collaborazione artistica, che è durata oltre dieci anni. Negli anni successivi Marina Abramović ha viaggiato tantissimo, da Parigi al Brasile, realizzando performance, laboratori e mostre ed è New York la città in cui ha raggiunto la consacrazione definitiva e che ha scelto per fondare la sua casa e il suo punto di incontro per artisti performativi di tutto il mondo.
Dopo un’infanzia dall’educazione molto rigida e un matrimonio probabilmente poco voluto, l’incontro nel 1976 di Marina con il performer tedesco Ulay è stato esplosivo. I due, nati nello stesso giorno, il 30 novembre, hanno stretto subito un connubio artistico e sentimentale che è stato totalizzante. Lui, ex ingegnere, non ha mai seguito studi accademici, ma gli veniva riconosciuto uno straordinario senso estetico e un talento per la fotografia. Insieme hanno realizzato la performance Imponderabilia, presso la Galleria Comunale di Arte Moderna di Bologna, in cui, completamente nudi, si sono posizionati l’uno di fronte all’altra all’ingresso di un passaggio molto stretto attraverso cui gli spettatori dovevano passare se volevano visitare il museo. Questa performance, assolutamente unica e senza precedenti, è stata interrotta dopo alcune ore dalle forze dell’ordine, perché considerata scandalosa.
Un altro capolavoro è stato Rest Energy nel 1980: Marina mentre reggeva un grosso arco e Ulay ne tendeva la corda. Come lei stessa ha raccontato, l’obiettivo era rappresentare l’estrema fiducia che riponiamo negli altri. Entrambi infatti si trovavano in uno stato di tensione costante, con il rischio tangibile che, se Ulay avesse mollato la sua presa, avrebbe potuto trafiggere Marina.
Come abbiamo anticipato, anche l’addio tra i due artisti è stato a tutti gli effetti un’opera d’arte, forse una di quelle più conosciute. In The Lovers, nel 1988, i due artisti si recarono agli estremi opposti della Muraglia Cinese, Ulay dal deserto dei Goby e Marina dal Mar Giallo. Dopo una camminata di circa 2500 chilometri, si incontrarono finalmente a metà strada e si dissero addio per sempre.
La performance art, di cui Marina Abramović è un punto di riferimento, è nata ad inizi Novecento, da artisti come pittori, attori e poeti che si esibivano apertamente davanti ad un pubblico. Con il trascorrere degli anni prima John Cage poi Allan Kaprow hanno unito più linguaggi espressivi per creare qualcosa di unico e nuovo. Sono stati gli anni Settanta quelli che hanno permesso di raggiungere il definitivo riconoscimento della performance all’interno della storia dell’arte ed è proprio in quegli anni che in Europa si sono formati due tra i più importanti performer del ventesimo secolo: Marina Abramović e Ulay.
Tra le performance più celebri di Marina spiccano, oltre a quelle già citate:
Relation in time, performance realizzata a Bologna, presentava i due artisti influenzati dalle pratiche di meditazione asiatiche. Marina e Ulay sedevano dandosi le spalle, con i capelli intrecciati saldamente tra di loro per sedici ore;
Balkan Baroque, presentata alla Biennale di Venezia nel 1997, in cui l’artista era seduta in una cantina piena di ossa bovine insanguinate. Marina le ha pulite costantemente per giorni, sia dal sangue che dai vermi, cantando litanie e lamenti. Quest’opera aveva un messaggio chiaro; era un riferimento agli orrori perpetuati nella guerra dei Balcani che si stava svolgendo e venne premiata con il Leone D’Oro;
GrandMother Of Performance sarà la sua ultima performance. Perché? L’artista ha infatti pensato a quest’opera che avverrà solo il giorno del suo funerale. Quel giorno ci saranno tre bare e ciascuna sarà mandata in una delle tre città che hanno segnato la sua vita, quindi Belgrado, Amsterdam, New York. Solo una conterrà il corpo dell’artista, ma nessuno potrà saperlo.