Sustain, in inglese, è la proprietà di uno strumento musicale di mantenere il suono nel tempo. È il lasso di tempo in cui il suono, dopo la sua emissione, dura e continua, anche così da favorire l’aggancio tra il suono in emissione e quello successivo. Si tratta di un esempio di sostenibilità. Una parola stupenda, ricca di sfumature, che sgorga da un’immagine di rara forza e bellezza: il tenere da sotto. È il caso di un ponte, sostenuto dalla silenziosa fatica del suo arco e dei suoi pilastri, o anche delle idee.
Alla base dell’idea di sostenibilità ambientale esiste di già il circolo virtuoso dell’energia. Partendo dal I e dal II principio della termodinamica, il concetto di sostenibilità dimostra che un’economia circolare è possibile poiché è insita in tutti gli altri sistemi viventi. Ciò di cui si parla è la capacità di un sistema di creare una circolarità in cui esistano scarti ma non rifiuti, esattamente allo stesso modo di qualsiasi altro sistema di esseri viventi. Ne consegue la necessità di mettere in discussione le modalità del consumo, ritornando così ad un bisogno di modificare il modello economico di riferimento.
Di norma, gli oggetti che utilizziamo nel quotidiano sono progettati secondo uno schema lineare: dal prelevamento della materia prima, alla produzione, alla distribuzione, allo smaltimento. In un’economia circolare invece, gli oggetti continuano ad essere riutilizzati, si preleva per lo più sempre dallo stesso stock di risorse e ci si focalizza sull’uso, più che sulla proprietà.
È, ancora, un cambio di paradigma che ha del filosofico, ma che risulta anche in una serie di possibili buone pratiche. Il termine dell’obsolescenza, e la nascita di prodotti fatti per durare di più e per essere riciclati in maniera semplice e con pochi costi, l’efficientamento del processo di produzione, con una riduzione del materiale richiesto, e, di sicuro, un miglioramento del sistema di distribuzione, laddove vanno privilegiati, con politiche di sostegno, prodotti che riducono le pressioni sui materiali vergini o siano più facili da riciclare quando arrivano alla fine del loro ciclo di vita. In un sistema che premia la linearità, in cui tutto corre in avanti alla massima velocità e in cui tutto è perituro, anche noi, dobbiamo invece imparare a chiudere il cerchio.
“Il nostro pianeta è rotto”, le parole forti con cui il segretario dell’Onu Antonio Guterres ha aperto il suo intervento alla Columbia University, non sono casuali. Rompere vuol dire minare l’integrità, e se oggi possiamo ancora in parte rimediare, cucendo alcuni strappi, è ora che lo si faccia di concerto. Le politiche climatiche ancora non hanno raccolto la sfida, né hanno assunto un impegno serio. Si pospone continuamente l’anno fatidico delle emissioni zero, e così si rimanda il futuro e al futuro la tutela dell’ecosistema. O si rimanda ad altri. Perché la prospettiva del cambiamento in meglio chiede una totale revisione della macchina economica, e non soltanto porre il clima al centro di un programma politico. Un cambiamento virtuoso ripristina il circolo, ci mette ad una tavola rotonda e ci costringe a guardarci intorno, a vedere quel “terzo paesaggio”, rifugio della biodiversità, che senza di noi, funziona in modo perfettamente sostenibile.