Quando nel 1996 “La belle verte”, il film della regista francese Coline Serrau, si prepara a sbarcare sul pianeta Terra, incontra l’ostacolo che incontrano le utopie e le idee argute e sagaci, nel suo percorso verso la distribuzione nelle sale cinematografiche.
Affossato dalla critica e definito una fanta-puttanata o, in clemente alternativa, una fiaba d’autore, (così Michele Anselmi sulle pagine de L’Unità del 4 maggio 1997), il film viene letteralmente nascosto e censurato in alcuni paesi dell’Unione Europea, e condannato ad un destino da seconda visione. Forse perché, se ad un primo sguardo l’ottava fatica della Serrau risulta finanche eccessivo nelle pretese, ad una seconda visione rivela la sua intima essenza di puro stimolo alla riflessione.
Il tema del raffronto tra l’attuale sistema sociale e una realtà sociale anarchica ed evoluta al punto da consentire la coesistenza pacifica di tutti gli esseri, in un pianeta altro, è condotto su binari da commedia dolce-amara e senza grandi espedienti stilistici tocca il cuore della questione ambientalista. La vicenda narrativa è infatti verosimilmente profetica sugli esiti di quella nuova era geologica definita “Antropocene” e, seppur fantasiosamente, speranzosa circa le possibilità di raddrizzare il tiro per mezzo di una nuova coscienza ecologica. Con leggerezza e poesia di immagini, “La belle verte” sintetizza ciò che l’uomo del 2000 non solo ha smarrito, ma non ha neppure ancora davvero conosciuto: l’azione di “disconnessione” con cui la protagonista, Mila, restituisce agli umani una visione lungimirante sulla complessità dell’ecosistema in cui essi vivono è l’operazione di rottura di uno schema collaudato e comodo che ha automatizzato il vivere e sotterrato tanto la responsabilità individuale quanto quella collettiva rispetto alle sorti del pianeta terra.
Ma facciamo un passo in avanti.
I cambiamenti climatici vanno visti in un’ottica sistemica e di rete. Si collegano ad esempio alle migrazioni, ed entrambi sono fenomeni che si ripropongono ciclicamente nella storia dell’umanità. A questo proposito l’analisi dello storico inglese Arnold Toynbee (1889-1975) ci può essere utile. Toynbee parla di azione e reazione: quando si crea un forte centro di potere, come fu l’Impero Romano o l’Europa di oggi, da un lato c’è la tendenza di questo potere ad allargarsi, ma allorché la sua forza propulsiva viene meno si verifica il fenomeno contrario, di riflusso. Quanto viviamo oggi è un fenomeno di riflusso che spinge le popolazioni povere del Sud a premere sui nostri confini. Popolazioni che spesso si ritrovano faccia a faccia con le conseguenze dell’impatto sui loro territori delle nostre cattive gestioni, nell’uso delle risorse disponibili, sulla scacchiera delle azioni geopolitiche mondiali. Il cambiamento climatico sviluppa quasi naturalmente un intreccio fra crisi economica e migrazioni.
Dal 2008 al 2017 in media 25,2 milioni di persone ogni anno hanno dovuto abbandonare la loro casa a causa di disastri ambientali. Il Centro per il monitoraggio degli sfollati interni (Internal Displacement Monitoring Centre) ha fornito una stima degli sfollati all’interno dei confini del proprio Paese: 18,8 milioni solo nel 2017. Secondo l’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni, le possibilità di essere sfollati a causa di disastri ambientali sono triplicate rispetto a 40 anni fa. Secondo la Banca Mondiale saranno 250 milioni le persone che si muoveranno all’interno del proprio Paese di origine o oltrepasseranno i confini a causa dei cambiamenti climatici entro il 2050.
In sostanza ciò che rischiamo di oltrepassare, prelevando risorse, è la capacità di autorigenerazione del pianeta. In alcune aree, ad esempio nel Nord del mondo, questa soglia è stata già superata. L’Italia è sempre più verde (ogni anno nel nostro paese ci sono 30 mila ettari di nuovi boschi) mentre l’Amazzonia muore, e intanto la maggior parte del legno che usiamo arriva dall’estero….
Dall’inizio degli anni Ottanta a oggi abbiamo già perso il 17% di foresta amazzonica. Secondo gli scienziati se raggiungeremo una deforestazione compresa fra il 25 e il 40% l’intera Amazzonia rischierà di scomparire totalmente, perché non ci saranno più abbastanza alberi per fare evaporare l’acqua e generare la pioggia che alimenta l’intero sistema, il più grande in qualità di serbatoio di carbonio.
Ciò che dobbiamo imparare a fare dunque, è renderci conto delle conseguenze delle nostre azioni a migliaia di chilometri di distanza e considerare i problemi climatici come una sfaccettatura di un’unica grande crisi: la crisi della percezione. In questo senso la pellicola della Serrau, specie nelle modalità con cui immagina di riportare l’umano a sentire, ci parla di questo: il concetto di “rete della vita” e di come sia l’altruismo ciò che sta alla base dell’evoluzione.