Riprendo il discorso interrotto ieri su Caio Trebazio, illustre giureconsulto di Elea Velia.
Riferisce il suo biografo che è un grande uomo di cultura e che inizialmente andrà alla scuola della filosofia, ma da questa corrente lo allontanò il suo amico Cicerone, seguace della filosofia stoica, come più consona allo studio delle lettere, Cicerone lo aveva in tale considerazione che lo RACCOMANDÒ A CESARE AL TAMPO DELLA GUERRA CON I DAKÌLLI, IL QUALE DOPO AVERNE RICONOSCIUTO IL MERITO GLI FECE DARE LO STIPENDIO di tribuno dei soldati, risparmiandogli, però la pena di esercitare tale carica. Fra le tante virtù Trebazio aveva qualche difetto, come racconta il suo biografo, era solito definire le questioni con troppa presunzione e Precipitana (sic). E cicerone non poté fare a meno di riprenderlo acremente, sottolineando: io non so quello che ti rende più superbo, o il denaro che ti guadagni, o l’onore che Cesare ti fa di consultarti. Ma Trebazio era un uomo di cultura e spesso si ritirava nella sua villa di Velia per dedicarsi all’otium creativo. Infatti su esortazione proprio di Cicerone tradusse i titopici di Aristotele e glieli dedicò, risciptendo, tra l’altro l’elogio ed il rispetto del poeta Orazio, che nelle satire gli dà il titolo di dotto, nisi quid tu docte. Trebati dissentis. In quel luogo, la Villa di Elea, pubblicò diverse opere: scrisse diversi libri sulle religioni, e parecchi altri Deiure civili: ma di tutti questi suoi lavori letterari non sono rimasti che pochi frammenti. A questa sua passione per la scrittura letteraria nel suo eremitaggio di Elea, recupero e trascrivo, qui di seguito due lettere all’amico, che, spesso, prolungava la sua vacanza nella sua villa di Velia tra cielo e mare, complice l’otium creativo, suscitando invidia, gelosia e nostalgia per l’amico lontano e pregandolo di tornare il prima possibile a Roma.
CICERONE a TREBAZIO (ad Fam, VII, 14)
Crisippo Vezio, liberto dell’architetto Ciro, ha fatto sì che io pensassi che tu non sei immemore di me, giacché mi comunicò a nome tuo i saluti. Sei già salito in gloria che ti disturba scrivere lettere tu per me specialmente per un uomo quasi di casa. Se hai dimenticato di scrivere tu avvocato, già in molti perderanno le cause: se ti sei dimenticato di me, farò di tutto per venire costà, prima ch’io dilegui completamente dalla tua memoria, se poi il timore degli accampamenti estivi ti toglie forza di scrivere escogita un mezzo per soccorrerti. Ho appreso dallo stesso Crisippo, e molto volentieri che tu sei amico di Cesare. Ma io preferirei, per Bacco, ciò che sarebbe più giusto di essere fatto partecipe dei tuoi interessi dalle tue numerosissime lettere, il che ben volentieri accadrebbe se tu avessi preferito imparare i doveri dell’amicizia piuttosto che quelli delle liti. Ma questi sono scherzi secondo il costume tuo e non poco anche secondo il mio. Ti amo moltissimo. Stammi bene.
Dello stesso tenore o quasi è anche la lettera seguente (ad Fam, VII, 15)
Quanto siano incontentabili coloro che amano si può dedurre anche da ciò. Mi era prima increscioso che tu ti trovassi costà malvolentieri, ora al contrario mi secca che tu mi scriva di trovarti benissimo laggiù, giacché infatti mal tolleravo che tu non ti compiacessi della mia raccomandazione a Cesare ed ora mi affliggo che vi possa essere alcunché di gradevole per te, senza di me. Ma tuttavia piuttosto desidero sopportare questo dispiacere per la tua lontananza che tu non possa conseguire quei beni, che spero. In quanto poi al fatto che sei entrato in amicizia con Caio Mazio, uomo carissimo e dottissimo non può dirsi quanto fortemente ne goda. Fa in modo che egli ti ami il più possibile. Credimi tu non potrai riportare da codesta provincia nulla di più prezioso. Procura di stare bene.
Le lettere inviate da Marco Tullio Cicerone a Caio Trebazio Testa, giureconsulto di Elea, Velia, dove aveva una prestigiosa villa, dove ospitava uomini di potere, filosofi e letterati di Roma negli anni a cavalo tra la fine del I secolo a.C e l’inizio del II, sono lo specchio fedele delle amicizie e degli intrighi della società romana che svernava nella provincia dell’impero, a dimostrazione che non c’è stato, non c’è e probabilmente non ci sarà nulla di nuovo sotto il sole. È un’amara conclusione. Ma così va spesso il mondo soprattutto nelle periferie degli imperi politici ed economici.