La caponata è un piatto della cucina povera, riscoperta ed esaltata sull’onda della moda del recupero degli antichi sapori.
Una tesi, non priva di fondamento, di esperti gastronomici la fa risalire agli antichi romani, che attribuirono a quel pane ammollito in acqua e condito con olio, sale ed aglio, spesso arricchito da ortaggi tagliuzzati, il nome dell’osteria e/o dell’ostessa – “caupona” -, che ne inventò la ricetta a veloce piatto di viandanti squattrinati.
Nei secoli l’avvento del pomodoro, del peperone e della melanzana (notoriamente importati in Europa dall’America dopo la sua scoperta) consentì ai contadini varianti più ricche e gustose.
Oggi resta una appetitosa e, da qualche decennio, ricercata eredità della civiltà contadina.
È la festa dei colori, il rosso del pomodoro, il bianco dell’aglio e/o della cipolla, il verde del peperone, l’oro filante dell’olio d’oliva e la fragranza dei profumi con quell’aroma da re del basilico, che, secondo l’etimo greco, è una pianta da re, appunto, ne fanno una prelibatezza dai sapori forti e dalla sostanza robusta.
La riuscita è nel sapiente dosaggio del condimento, di cui le esperte massaie del Cilento interno sono maestre. Esiste anche la variante della costa con l’aggiunta delle alici intere o spezzettate con il richiamo ai profumi e ai sapori del mare.
Ed è una delizia da gustare nelle semplici trattorie di campagna e di mare, all’aperto, su tavoli rustici con l’effetto brezza che stempera l’afa dei mesi estivi e profuma l’aria a lungo raggio o, anche, su loggiati ariosi, sotto porticati umbratili e nei giardini accoglienti di case amiche, alla buona, senza i vincoli del formalismo. È un piatto con una forte dose di coinvolgente familiarità. Fa nascere e consolidare amicizie.
Ma l’elemento più importante per la buona riuscita di una caponata è il pane: la fresella o i biscotti (vescuotti) di grano duro, meglio se integrali (che squisitezza la ruvidezza del pane cafone!), che si spappolano teneramente friabili al primo leggero contatto con l’acqua.
Il pane, appunto, è da sempre il re dell’alimentazione. Nei secoli è stato la benedizione delle case, simbolo di ricchezza e di abbondanza. La mancanza, sinonimo di privazione, stenti, miseria e fame. E, forse per questo, la mitologia antica è popolata di dei e dee dei campi e dei frumenti, i cui raccolti abbondanti assicuravano pane e sopravvivenza. Ritualità che si è, poi, trasferita nella liturgia cristiana, ricca a sua volta di madonne e santi a protezione di campagna.
Ma torniamo alla caponata che è un piatto diffuso in diverse regioni d’Italia: Toscana, Umbria, Lazio, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia, anche se cambia nome e subisce varianti da zona a zona, pur conservando il pane raffermo e ammollito come comune denominatore. Nella Maremma Grossetana, ad esempio, si chiama “panzanella” ed è un mèlange di pane sbriciolato quasi a poltiglia con tanti prodotti dell’orto finemente sminuzzati ed amalgamati in sapori forti e profumi intensi. Nelle zone di campagna del mio Cilento ha da sempre il nome di “acquasale” ed è saporitissimo nella pastosità dei “vescuotti” di farina integrale ammolliti e guarniti dal cuore bianco di una cipolla tenera, dal rosso fuoco di un pomodoro carnoso e dal verde intenso e profumato di una foglia di basilico: E la bandiera tricolore del gusto dell’Italia contadina celebra, così, la sua festa con il tocco finale del ricamo d’oro dell’extra vergine d’oliva, che ha catturato sole sui crinali delle colline spalancate sul mare dei miti e della storia, dove Licosa e Palinuro riecheggiano i lamenti di amore e morte nel cuore delle grotte a processione devota di innamorati nelle notti di plenilunio. Esiste anche una variante “panzanella romana “, che ha sbrigliato la fantasia creativa del grande Aldo Fabrizi.
“E che ce vò/ pe’ fa’ la panzanella?/Non è che il condimento sia un segreto/però la qualità dev’esse quella/In primise: acqua fresca de cannella/in secundese: ojo d’uliveto/ e come terzo quer di vino aceto/ che fa venì la febbre magnarella/Pagnotta paesana un po’ ‘ntostata/cotta all’antica co’ la crosta scura/bagnata fino a che non s’è ammollata/In più, per un boccone da signori,/abbasta rifinì la svojatura/ co basilico, pepe e pomodori.”
Alla “panzanella” romana del grande ed indimenticabile Aldo Fabrizi fa da controcanto “l’acquasale” cilentana con la sonorità rasposa dei miei versi dialettali: “Nce vole poco pe campà felice/na pemmarola fresca e no vescuotto; no filo r’uoglio, na vasilicoia/no piesciolo re preta no giornale/ mpere na cerca mponta no tempone/co lo ponente tre la rufrescata/E me nne fotto re chi tene sordi;/e chi è meglio re me senza pensieri:/ lo cane ca me struscia co la cora/lo atto a panza all’ario ca pazzeia/lo mierolo ca nnamurato canta./Nfronte lo sole russo se nne cala”. E così i contadini o, come diceva Gramsci, le classi subalterne si tendono la mano e se la stringono sotto qualsiasi cielo e a qualsiasi latitudine in sintonia di cuori anime e pensieri ad intonare il canto di libertà in nome della “felicità fatta di niente” e, soprattutto, senza l’assillo del “dio danaro”.