In questa società, smodatamente consumista, il disinteresse a conservare a lungo gli oggetti coincide con la diffusa incostanza che non induce a preservare i rapporti nel tempo. L’avidità con cui si acquista e, poco dopo, si getta via un oggetto usato, si riflette nel modo incurante con il quale, troppo frequentemente, vengono utilizzate le persone. Riscontro, sempre più, la tendenza individualista ad aggirarsi nella vita degli altri come se si stesse facendo la spesa (investendo poche risorse e ancor meno aspettative) in un alienante discount affettivo. Contrariamente a tale atteggiamento opportunistico, ho sempre pensato che fosse proprio il tempo a conferire pregio, importanza, valore agli oggetti, ai progetti e, soprattutto, ai legami. Se si custodisce con rispetto e dedizione ciò che appartiene al passato si resiste alla tentazione di sostituire quello che si ha già con qualcosa di più nuovo, nella consapevolezza che persino l’ultimo acquisto – se confrontato con uno più recente – non potrà che essere considerato inevitabilmente vecchio.
A proposito della smania di possedere, durante i viaggi in Senegal ho invece constatato come (nel migliore dei casi) le abitazioni, rispetto alle nostre, siano dotate del minimo indispensabile. I bambini non possiedono granché ma (come in Italia quando si disponeva di meno beni materiali) gioiscono per ogni dono e lo utilizzano anche se usurato. Inoltre, i piccoli senegalesi s’ingegnano nel cercare di recuperare tutto ciò che trovano per inventare intrattenimenti nuovi. Mentre costruivo con loro castelli di sabbia, riflettevo su quanti bambini insoddisfatti ho visto sulle nostre spiagge, magari circondati da giocattoli inutilizzati e inebetiti davanti al tablet. Il giornalista Alexander Langer, sostenitore di una necessaria conversione ecologica dell’economia, nel 1992, durante un intervento a Lione sullo smaltimento della plastica, pronunciò queste parole: “Sono rifiuti che mandano un doppio crudele messaggio: ci dicono che le cose vengono usate con economica brutalità, senza comprensione e sintonia, e che tutto ciò che non conserva l’abbagliante luccichio del “nuovo di zecca” è semplicemente da buttare. Che terribile oracolo: l’“usa e getta” come canone fondamentale della nostra società! Una legge, forse non meno impietosa di quella spartana che imponeva di gettare i bambini ritenuti troppo deboli, e che viene applicata non solo alle cose, bensì anche agli uomini (ed ancor più alle donne). Una legge che impedisce di conoscere a fondo, di amare, di scoprire, di possedere davvero, di inventare, di creare, una legge che trasforma ogni cosa dopo breve o brevissima vita in rifiuto e che fa concentrare, rimuovere e possibilmente annientare i rifiuti, magari persino catapultandoli nello spazio, quando definitivamente non sapremo più come difendercene. Rimuovere quello che abbiamo ed usiamo per fare spazio a nuovi consumi, nuovi bisogni, nuovi sprechi, nuova competizione, nuovo luccichio e nuovo abbaglio. Cancellare le nostre tracce (peraltro sempre meno nostre), sfigurare e respingere da noi ciò che abbiamo usato o mangiato fino a poco prima, pretendere nuovi involucri sigillati e sterili, nuove vergini artificiali da violare distrattamente e poi buttare”. Come Langer sono convinta che non sia affatto il tempo a sciupare le cose, bensì il disinteresse, la trascuratezza, la noncuranza che, dopo un forte desiderio iniziale, inducono le persone a eliminare e a sostituire, piuttosto che ad impegnarsi nel tempo per preservare. Ogni volta che un oggetto o un rapporto non più desiderato è gettato via come l’ennesimo rifiuto indifferenziato.