In passato ho impiegato parecchie risorse, energie, aspettative nel tentativo di realizzare il desiderio di diventare mamma. Oggi, ripensando ai traguardi che ho strenuamente cercato di raggiungere invano, mi rendo conto che la vita, senza consultarci, decide spesso per noi. Sembra che, sebbene la nostra determinazione sia caparbiamente pertinace, il destino riesca comunque a essere più ostinato di lei. O forse è soltanto più saggio, essendo meno coinvolto emotivamente. Di certo chi non apprezza gli imprevisti e ambisce alla stabilità, accetta difficilmente l’imprevedibilità quando, sconvolgendo i programmi, priva di ogni certezza. Una citazione di Fabrizio Caramagna che amo molto è: “Forse la mia vita è come un fiume che va al mare: non è andata dove intendeva andare, ma è finita dove aveva bisogno di essere”. La mia, variando inaspettatamente il proprio corso, rischiando forse persino di arrestarsi, è arrivata imprevedibilmente in Senegal. Quando il mio progetto familiare non poteva più realizzarsi, ho incontrato sulla mia strada – mentre procedevano scalzi, con un secchiellino in mano per mendicare – i bambini Talibè, privati dal destino di una famiglia. Da molti anni, con l’Associazione Avvocato di Strada Onlus, mi occupo delle persone senza fissa dimora ma, prima del mio viaggio in Africa, non sapevo quanti bambini vivono per strada, senza genitori. In un mondo più comprensibile dovrebbe accadere che le prime delusioni arrivino durante l’età adulta, quando si è adeguatamente strutturati per affrontare gli insuccessi, reagendo alle frustrazioni. Nel mondo reale, invece, esistono bambini molto piccoli che, inaccettabilmente presto, si trovano a vivere il dolore dell’abbandono, separandosi dai genitori che, invece di proteggerli con il proprio bene, li consegnano (il più delle volte consapevolmente) ad un’esistenza di sofferenza. Ritengo che non competa a nessuno esprimere giudizi sul comportamento di questi genitori, giacché ciascuno dovrebbe valutare soltanto ciò che realmente conosce, attraverso l’esperienza diretta, del proprio vissuto. Penso, però, che tutti noi dovremmo quantomeno prendere consapevolezza dell’esistenza di queste situazioni perché, ignorandole, ci rendiamo complici di chi è responsabile di trascurare questi bambini: mi riferisco al tacito consenso delle istituzioni, prima ancora che ai loro genitori. Eppure, ogni volta che avvicino questi bambini, rimango sorpresa dalla loro straordinaria umanità. Sebbene siano stati privati dell’esempio di chi avrebbe dovuto prendersi stabilmente cura di loro, sono comunque capaci di proteggersi l’un l’altro e di manifestare (dopo qualche esitazione e comprensibile diffidenza) tenerezza, gratitudine e fiducia nei confronti del prossimo. Una mattina, mentre li intrattenevo per le strade di Malika gonfiando palloncini, mi sono commossa perché uno di loro, seduto a terra accanto a me, con la manina sudicia di sporco, tentava minuziosamente di togliermi la sabbia di dosso. Lui piccolino, con i vestiti macchiati e consunti, cercava di pulire i miei, prendendosi cura di me. Un’immagine preziosa che preserverò nel mio cuore. Prima di conoscere questa realtà di abbandono ero convinta che i bambini apprendessero l’amore attraverso le dimostrazioni d’affetto dei propri genitori. Dopo aver incontrato i bambini Talibè mi sono persuasa, invece, che l’amore è un dono innato in ciascuno di noi, un’inclinazione di cui tutti, sin da piccoli, siamo dotati e che, diversamente da ciò che pensavo, sono gli adulti a dover imparare dai bambini come trasmetterlo, come continuare a fidarsi della vita e del prossimo, senza che le delusioni del passato possano condizionare il futuro.
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