Durante il primo viaggio in Africa con l’Associazione Renken ho visitato Gorée, che si trova al largo della costa del Senegal, di fronte a Dakar. L’isola, dal 1978 Patrimonio dell’UNESCO, ospita la Maison des Esclaves, l’edificio dove, dal 1700 in poi, furono segregati i milioni di africani che, strappati con violenza alla propria terra, erano poi venduti agli altri continenti. Visitando la struttura, che era in sostanza una prigione, realizzi come queste persone siano state inumanamente private della libertà, pesate e prezzate (in base all’età, al sesso e alle condizioni fisiche) proprio come se si trattasse del commercio di bestiame. Nel retro della costruzione è situato l’emblema della crudeltà: la piccola porta dalla quale transitavano gli schiavi prigionieri, costretti in catene a salire sulle navi e obbligati, con la forza, a lasciare per sempre alle spalle il proprio Paese, i propri cari, la propria vita.
L’isola però è, oggi, un luogo turistico caratteristico e colorato, con ristoranti, negozietti, botteghe artigiane e, come ogni luogo senegalese, tanti bambini sorridenti che giocano per strada.
La Dichiarazione universale dei diritti umani, sottoscritta nel 1948 a Parigi, all’art. 4 prevede espressamente che: “Nessun individuo potrà essere tenuto in stato di schiavitù o di servitù; la schiavitù e la tratta degli schiavi saranno proibite sotto qualsiasi forma”.
Come troppo frequentemente accade per le disposizioni di diritto, anche questa resta soltanto una previsione normativa vigente, cogente ma inattuata, giacché lo sfruttamento – anche nel nostro Paese firmatario dell’Accordo – è, ancora oggi, un fenomeno evidentemente diffuso, basti pensare alle vicende dei braccianti nel settore agricolo, alla prostituzione e alla tratta degli esseri umani per il commercio degli organi.
Abraham Lincoln che – mi piace ricordare – prima di essere eletto Presidente degli Stati Uniti, era un avvocato dedito alla tutela dei diritti delle persone discriminate, ha combattuto strenuamente contro la schiavitù, perseguendo ideali di libertà, democrazia ed uguaglianza, sul presupposto che: “È accaduto così in tutte le epoche del mondo che alcuni hanno lavorato e altri hanno, senza lavoro, goduto di una gran parte dei frutti. Questo è sbagliato, e non deve continuare”.
Il Global Slavery Index, pubblicato ogni anno dalla Walk Free Foundation per rendere noti i dati della schiavitù globale, nella sua ultima indagine del 2018 ha rilevato che sono circa 40 milioni le persone che subiscono ancora oggi una condizione di schiavitù e che il loro sfruttamento (fisico, psicologico, sessuale) lo scorso anno ha procurato almeno 150 miliardi di dollari da proventi illeciti.
Leggendo questi dati ho pensato all’immagine dei bambini del Congo che, in condizioni disumane – persino sorvegliati dal controllo costante di uomini armati – estraggono dalle miniere il cobalto che servirà alle più note aziende di telefonia per produrre i nostri smartphone.
Sembrano terribili vicende molto distanti da noi ma dipendono anche dalle nostre scelte quotidiane, soprattutto da quella di non scegliere, di non assumere posizione, ignorandole. Il filosofo Kant esortava, così, il prossimo a decidere i propri comportamenti in base alle conseguenze generali che determinano: “Guarda le tue azioni nell’ottica universale e capirai se sono azioni moralmente buone o no”. Dovremmo ricordarci che le nostre decisioni, in qualche modo, hanno sempre una piccola grande ripercussione sul resto del mondo e, partendo da questo presupposto, comportarci di conseguenza nei confronti della nostra coscienza, del prossimo e dell’ambiente.