Prima di partire per un viaggio in Africa è consuetudine informarsi su quali siano i vaccini ai quali è opportuno sottoporsi. Consapevole di quanto sia stata bene in Senegal, oggi sorrido al pensiero che l’unico rischio inevitabile al quale mi sono esposta è stato contrarre, prevedibilmente, il mal d’Africa. Infatti, la sola complicazione del viaggio è stata, al rientro, riuscire a riadattarmi al nostro ritmo di vita estenuante.
L’Africa è un continente che cura, guarisce, restituisce tutto ciò che offriamo e aggiunge, come un prezioso dono, la consapevolezza di quanto sia dannosa l’esistenza logorante che (quasi con rassegnazione) subiamo. In molti paesi dell’Europa, appunto, procediamo strenuamente come automi, vessati e stressati dagli obblighi lavorativi, contributivi e fiscali. Sempre di corsa, privi di certezze, proiettati verso un avvenire reso ancora più precario da una qualità del presente, in pratica, assente. L’eccessiva programmazione del futuro ci induce, inevitabilmente, a svalutare il presente. Nei casi più fortunati, lavoriamo per estinguere il mutuo (forse fra trent’anni) e per versare i contributi (auspicando una pensione che probabilmente non percepiremo mai). Assillati dai giorni che ci separano dalle scadenze, trascuriamo quanto tempo prezioso sottraiamo a noi stessi e alle persone che amiamo. Nella frenesia delle giornate, l’individualismo costituisce ormai una risorsa: se il tempo non è abbastanza per noi, figuriamoci per gli altri.
La tradizione africana è (come, un tempo, la nostra) ancora fortemente collettiva, fondata sulla solidarietà reciproca che, con la dovuta calma e attraverso la condivisione, consente di affrontare congiuntamente le effettive avversità della vita. In Senegal le giornate non sono soltanto la sommatoria di ore che non bastano mai, perché gli africani sanno che il tempo si può anche gestire e rallentare, per fermarsi a conversare con gli anziani, per far visita alle persone, per gioire della convivialità. Accade anche qui ma per noi incontrarsi è diventata l’eccezione, capita soltanto per le ricorrenze o nei giorni festivi, mentre per le famiglie senegalesi – ritrovare se stessi e gli altri – è l’essenza della quotidianità.
L’espressione wolof «ndanka ndanka» si può tradurre come un invito a procedere adagio, a non proiettarsi troppo in là nel futuro, a decelerare, piuttosto, traendo giovamento dal singolo momento, ridimensionando il raggiungimento dei traguardi, per conferire la giusta rilevanza al significato del primo passo. Certamente il sistema organizzativo africano non è adeguato alle esigenze della popolazione ma questo dipende principalmente dallo sfruttamento del colonialismo (che sotto alcuni aspetti prosegue ancora) e dall’assenza protratta di provvedimenti istituzionali opportuni. In molte case senegalesi, però, le dinamiche organizzative delle famiglie sono notevolmente più strutturate delle nostre perché si basano sul principio della collaborazione e della ripartizione equa dei compiti: nessuno è lasciato solo, né fisicamente, né, tantomeno, ad assumere impegni sproporzionati rispetto agli altri e alle proprie possibilità.
Nelle famiglie africane il valore del tempo non è riconosciuto soltanto nel modo di concepire le giornate ma anche (e soprattutto) nel considerare le persone che, anche in ragione dell’età anagrafica, acquistano nella comunità un considerevole ruolo di autorevolezza. Così gli anziani, con la loro preziosa esperienza, accompagnano i più giovani durante il cammino della vita e non si sentono un peso per la propria famiglia, perché è proprio la loro stimata saggezza che attenua, solleva e alleggerisce le preoccupazioni degli altri.