Il termine wolof “teranga” esprime il valore della rinomata ospitalità senegalese che, rivolgendo un’attenzione esclusiva alla persona, pone il visitatore al centro della considerazione di chi lo riceve e, allo stesso tempo, gli consente di sentirsi parte integrante della famiglia, rendendolo partecipe, come ogni altro, delle consuetudini della casa. Così, per accogliere il nuovo arrivato, potranno essere cucinati i caratteristici piatti della tradizione, alla preparazione dei quali sarà lui stesso invitato a contribuire, insieme con gli altri.
In Senegal ho percepito evidenti premure in ogni abitazione nella quale sono entrata, anche solo per una volta, come quando una nonna, mentre fotografavo i nipotini sull’uscio, mi ha presa per mano e mi ha portata dentro casa. Ricordo distintamente tutto ciò che non c’era all’interno. Soltanto alcune stuoie, qualche zanzariera consunta e poche stoviglie sparpagliate a terra. L’anziana signora mi ha condotta in un cortiletto nel retro dove, intorno ad una capiente bacinella, quattro giovani donne sedute nella sabbia si dedicavano al bucato, cantando. Le ragazze mi sono venute incontro sorridendo e mi hanno invitata a sedermi tra loro, mentre i bambini saltellavano intorno a noi con la consueta festosità. Sono rimasta con loro per un po’, in un’atmosfera surreale, riflettendo che nessuna di quelle donne era preoccupata di sapere chi fossi né, tantomeno, che potessi esprimere considerazioni sulla casa o sulla loro vita. Con sguardi rassicuranti e sorrisi contagiosi erano accorte, piuttosto, nel farmi sentire la benvenuta. Come dovrebbe ricordare la parabola di Gesù da Maria e Marta di Betania, chi entra nella nostra casa ricerca soprattutto l’ascolto, ovverosia la predisposizione all’accoglienza spirituale, che non dovrebbe essere compromessa dagli affanni concernenti il trattamento formale.
Sia a Dakar, sia nei villaggi vicini, ho visto frequentemente le porte delle abitazioni spalancate e le persone riunite all’esterno: sui pianerottoli, per le scale, in strada, grandi e piccini giocano, mangiano e conversano insieme. Forse è ancora così in qualche paese italiano, certamente non più nei condomini delle città nelle quali ho abitato. Non penso che le nostre porte siano serrate soltanto per ragioni di sicurezza. Credo piuttosto che siamo ormai condizionati dal timore di perdere la privacy, dalla necessità di tutelare la riservatezza e da altre analoghe sovrastrutture come l’ansia del giudizio. Solitamente, senza avvertire e accordarci scrupolosamente sull’orario, non faremmo visita neppure alle persone più care, perché arrivare senza preavviso significa disturbare. Il Senegal mi ha ricordato che un arrivo non annunciato può essere anche una gradita sorpresa.
Da quando sono tornata dall’Africa, ogni volta che ascolto dibattiti o leggo considerazioni sulla questione dei “porti aperti” mi rendo conto che la predisposizione all’accoglienza coincide spesso con l’apertura, la disponibilità, la propensione all’ascolto delle persone vicine, a partire da quelle che incontriamo in famiglia, sull’autobus o nel luogo di lavoro. Prima di dare risposte su questioni di politica internazionale, potremmo chiederci quanto sappiamo aprire agli altri la porta della nostra casa, della nostra vita e, soprattutto, il cuore. Per occuparci correttamente dei limiti territoriali dovremmo prima cercare di abbattere le nostre (inutili, a volte dannose) barriere mentali.