La settimana scorsa ho partecipato alla presentazione del libro di Marcello Napoli “Alfonso Gatto e il ‘continente’ Sardegna” (edizione dell’Ippogrifo), organizzata dal Circolo dei Sardi a Roma che rileggendo gli scritti del Grande Poeta hanno riscoperto ed esaltato l’orgoglio di identità e di appartennza alla storia ed alle tradizioni della loro bella isola. Il mio pensiero è corso immediatamente al mio Cilento e, chiamato a parlare della cilntanità del mio Amico e Maestro, ho ricordato anch’io con legittimo orgoglio delle sue poesie dedicate al mio territorio di origine.
Non tutti sanno che Alfonso Gatto, una delle voci più significative del novecento italiano ed europeo, ha dedicato molte e belle poesie al Cilento, in generale, e a Paestum, in particolare. Ma il Cilento e, soprattutto, Paestum, ingrati, ne ha rimosso, o quasi, la memoria. Io provo a colmare un vuoto, nei limiti delle mie capacità e possibilità. Probabilmente mi leggeranno in pochi (la maggioranza è fatta di “rachitici floridi”, belli fuori e malati dentro, come mi ripeteva spesso proprio Alfonso Gatto, lamentando il dilagare di una società senza cultura). Ma ci provo lo stesso, per un atto d’amore dovuto all’Amico ed al Maestro, ma anche per una testimonianza delle enormi possibilità che la mia terra di origine è in grado di offrire, se ha la fortuna di incrociare sulla sua strada un Grande Spirito, che ossifichi nella pagina le emozioni a contatto con la storia, i miti e le seduzioni del paesaggio da Paestum a Palinuro. E tento di dare corposità e carnalità alla parola che fa ressa alle porte del cuore e della mente.
Mi capita spesso, infatti, di fare un viaggio a ritroso di memoria con il sottofondo della sonorità delle sue poesie e, d’improvviso, mi si materializza accanto la sua figura con quel sorriso simpaticamente sornione e quel suo affabulare dolce, mite, lento. Quando lungo la costa che mi porta nella terra delle origini attraverso il ponte sul Sele con sullo sfondo, in lontananza, il Soprano ed il Sottano, i monti dell’infanzia, mi esplode dentro la fluidità solenne degli endecasillabi “Scendeva il Mississipi dall’eterno/silenzio degli Alburni verso il mare/ dei templi…./; e rivedo l’uomo solo, d’argento, in mezzo ai giunchi dell’acqua immota e mi danzano nella mente e nel cuore le immagini dei bambini che giocano in un bunker ed il ragazzo che scendeva nella controra, affannato senza voce a far cenni che di là sulla foce del fiume il soldato vestito da ramarro s’è bagnato il volto con la mano e ha scritto il nome sopra il fango secco e s’è disteso in quel frinire di cicale roventi per morire. Era “lo sbarco” del ’43 e “l’estate di Salerno, azzurra bianca, ventilava chiare nuvole in cielo”:
Qualche chilometro più in là la maestosità dei templi dorici testimonia tutta la grandezza e lo splendore di Poseidonia. Cambia scenario ed il clima è quello autunnale, di un autunno che, però, prolunga l’estate ed il Poeta ricorda il prestigioso passato “Ci furono le rose/ un tempo, gli asfodeli./ Ora passa nei cieli/il cielo che rispose alla notte degli anni/,/alle paludi,ai morti/Ci restano più forti/ del tempo questi inganni/ della dolce stagione”. Ma il Poeta attualizza ed umanizza le sue immagini creative e scolpisce nell’eternità della poesia “…il povero che vede/fermarsi sul suo piede/ il sole (e) già s’espone/ al suo sorriso cieco/:Felice si somiglia,/balbetta con le ciglia/ il soliloquio greco” (Novembre a Pesto).
Era una estate lontana. Accompagnai Alfonso al Museo per ammirare la straordinaria scoperta degli archeologi che avevano restituito allo stupore dei visitatori l’anfora ancora intatta nel suo pieno di miele. Ne fu colpito, e a tavola, al “Nettuno”, lo stupore cominciava ad avere i contorni della grande poesia nel nostro dialogo che si rifrangeva lento sui finestroni spalancati sulla grande storia. Tempo una settimana e mi lesse per telefono quei versi bellissimi e solenni insieme “Se credere che il miele nel vasetto/ di coccio ne gorgoglia con l’orecchio/che squaglia il suo cerume, con abbaglio/del mare nel dirompere./Destata, ricordata?/Nella giumella delle mani vuote/il lievito poroso della sete./Sfrigola l’origliare del suo miele/perpetuo, l’alveare dei millenni”.
Dopo pranzo volle andare nella piana di Altavilla, per “assaggiare” (termine suo) angurie a mezzaluna, di quelle nostrane, autoctone, con la scorza verde scura, di cui restano poche e rare coltivazioni. A Matinelle ci imbattemmo in un funerale. Ci fermammo ed il Poeta interiorizzò le immagini, che di lì a poco presero la corposità della poesia “Scegli che vuoi, muro vento croce,/da secoli la raffica di calce/imbianca l’unto della pietra,scalcia/ l’asino cieco, l’uomo e la sua voce/soli con sè si parlano più forte/come tra loro strepiti un motore/ch’alza ali di polvere./La morte/fa tutto secco l’uscio del dolore./il mondo cambierà, non cambia il gesto/di chi rimane solo alla distanza,/ fermo ove è più lesta/a fuggirlo la macchina che avanza”. La poesia si intitola “Dall’uscio” è molto bella e triste insieme e registra in calce questa nota del Poeta. “Non ho mai visto così secchi i legni esposti nella campagna, come nell’ora della morte di qualche uomo semplice. E’ una poesia “vista” nella pianura salernitana verso Albanella: il simbolo, se simbolo è, è dei fatti, di quei fatti particolari, che non lasciano accadere più nulla”.
Ce n’è abbastanza per rimuovere il silenzio ed onorare un Grande Figlio della terra salernitana. Io ho provato a farlo in questo breve ma intenso viaggio, carico di ricordi. L’ho fatto per non dimenticare e per esortare a non dimenticare. Mi verrebbe voglia di suggerirlo ad altri. Ma non so quanti mi ascolterebbero in un territorio popolato da “rachitici floridi”, più attenti alla vanità dell'”apparire”che alla concretezza dell'”essere”, anche se soffro a rassegnarmi all’esaltazione della volgarità dell’effimero a fronte del culto della bellezza del duraturo e dell’eterno, come storia ed arte di Poseidonia/Paestum consentirebbero e consiglierebbero. E nel colloquio/soliloquio con il mio Amico e Maestro profetizzo per me lo stesso destino. Ciò nonostante lascio in eredità, per quando sarà, il messagio dei suoi versi, che valgono per lui, Grande Maestro, come per me modesto suo discepolo in poesia: “Così per l’infinito della memoria il nome/mi resti in ogni passo che si ferma vicino/e s’allontana come salendo al mio ricordo/ Basta l’umile accordo di voci e di parole/che mi dica poeta, sarò per chi mi vuole nel vento della chiara notte che va con lui”.